Un'ex spia: "Contatti con mafiosi e terroristi? Sì, per la sicurezza del Paese"
Per 32 anni M. è stato un funzionario del Sisde e dell'Aisi. Nel 2017 ha lasciato il lavoro e si è rivolto al Tar del Lazio, convinto di avere subito un trattamento vessatorio. A lavialibera racconta i segreti di un mestiere fuori dagli schemi
Ha dato la caccia ai latitanti di Cosa nostra, contribuito a contrastare le infiltrazioni mafiose e tenuto i contatti con un’organizzazione ritenuta terroristica. Per 32 anni M. ha vissuto e operato – con dedizione e riserbo – in quella che lui chiama "l’amministrazione". "Soltanto mia moglie sapeva che lavoro facevo", racconta a lavialibera quest’uomo, entrato nel Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (Sisde), e poi passato all’Agenzia informazioni e sicurezza interna (Aisi). M. ha svolto un mestiere che, a differenza di quanto mostrano i film hollywoodiani, è fatto più di ricerca delle informazioni, studio e analisi che di azioni estreme. Nel 2017 ha lasciato il lavoro e due anni dopo ha fatto ricorso al Tribunale amministrativo regionale del Lazio per provare di aver subito un "trattamento vessatorio": "Il mio è un caso di mobbing e demansionamento. Sono stato messo nelle condizioni di non fare niente per tre anni, dopo tanti anni di carriera", racconta seduto a una scrivania nel suo ufficio privato, mentre rilegge la sentenza, su cui ha preso appunti a penna rossa.
Non ci sono scuole che lo insegnino, si entra e si comincia a lavorare affiancando i colleghi e studiando gli interessi dell’intelligence, quelli criminali, terroristici ed economici.
Lei come è arrivato al Sisde?
Era il 1982 e in quel periodo i servizi avevano bisogno di personale. Finito il percorso da allievo ufficiale dei carabinieri, mi è stato proposto di entrare nel Sisde e ho accettato. Da lì sono subito transitato all’Alto commissariato antimafia, creato dopo l’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Quindi, alcuni anni dopo, sono passato a lavorare in un centro territoriale, sempre operativo, tranne un breve periodo a Roma nella divisione criminalità organizzata.
Cosa ricorda dell’Alto commissariato per la lotta alla mafia?
Eravamo nel pieno della guerra di mafia, coi corleonesi che avevano preso Palermo e ogni giorno si contavano due, tre morti. Facevamo ricerche a tutto campo, anche per la cattura dei latitanti.
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Non ci sono scuole che insegnino a diventare agenti segreti, si entra e si comincia a lavorare studiando gli interessi dell’intelligence
Pare ormai acquisito che "pezzi di apparati investigativi e di sicurezza" (dichiarazione, tra gli altri, dell’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho) hanno avuto un ruolo nelle stragi del 1992 e nelle successive indagini. Lei che dice?
Fin quando sono stato all’Alto commissariato antimafia, abbiamo sempre operato a tutela delle istituzioni. A me nessuno ha mai chiesto di fare cose strane, non so e non ho mai saputo nulla sull’eventuale presenza di personaggi ambigui.
È giusto avere rapporti coi mafiosi?
Se il rapporto è funzionale a ottenere informazioni per la tutela della sicurezza dello Stato, allora sì. Va sempre considerato che il fine ultimo è debellare le mafie. Come dice un vecchio adagio: «È un lavoro sporco, ma così sporco che soltanto i gentiluomini possono farlo».
Per quale ragione una fonte parla con un agente segreto?
I motivi sono molteplici. L’abilità dell’agente è carpire gli interessi della persona per poi fare leva su questi. A volte si ha l’impressione che le fonti parlino perché sentono di essere prese in considerazione, si vedono affermate e importanti.
Ricevono favori?
Qualche volta accade, come è normale. Avviene anche nelle forze di polizia.
Le fonti, che in gergo chiamiamo “risorse di human intelligence” (o HumInt, la raccolta di informazioni attraverso il contatto con le persone, ndr), dovrebbero essere avvicinate in maniera specifica. Quando si affronta un ambito per cominciare una ricerca di informazioni, bisogna inquadrarlo, studiarne gli attori e capire quale tra questi può essere la persona adatta.
Si va a strascico?
No, sarebbe da incompetenti. Si studiano anche le tecniche di programmazione neuro-linguistica per capire meglio come convincere l’interlocutore.
Com’è la vita di un agente segreto?
È dedicata all’amministrazione, non si ha una vita sociale. Se fatto seriamente, si sta soltanto all’interno della propria famiglia ristretta, senza amicizie o frequentazioni particolari. È quasi una vocazione.
Cosa intende per “frequentazioni particolari”?
Ad esempio, la massoneria. Due volte hanno cercato di coinvolgermi e farmi affiliare, ma ho rimandato al mittente l’invito. Ho giurato fedeltà alle istituzioni democratiche.
I suoi familiari sanno che è stato un agente segreto?
Per molto tempo mia moglie è stata l’unica a saperlo. Mio figlio l’ha saputo quando è diventato maggiorenne.
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L'agente segreto non ha una vita sociale. Si sta soltanto con la propria famiglia, è quasi una vocazione
Come si mantiene questo riserbo?
È un’attività che non si concilia con la vita normale, soprattutto quando si agisce sotto copertura. Allora agli amici o ai vicini di casa si parla di altro, di un ruolo in borghese nelle forze di polizia, quel che basta a placare la curiosità.
Film e serie tv trasmettono l’idea di un lavoro ad alta tensione. È davvero così pericoloso?
C’è una buona componente di rischio, soprattutto quando non si lavora con chiarezza. Se ci si comporta male, se si fa "l’infamata", allora si può mettere a repentaglio la vita.
Con i suoi informatori c’era trasparenza?
Dipende da caso a caso. Ognuno ha bisogno della soluzione adeguata.
I servizi segreti hanno talvolta una cattiva fama e per non generalizzare si parla di servizi deviati.
È un’espressione che mi infastidisce. Il servizio è un’istituzione dello Stato, svolge un lavoro essenziale e segue delle istruzioni. Le istituzioni non possono essere deviate. Alcuni individui potrebbero invece scendere a compromessi estremi, sbagliati. Possono esserci soggetti che perseguono interessi personali e distruggono il lavoro di tanti.
Del termine “spia” che pensa?
Per me è colui che porta fuori dei segreti, non colui che acquisisce le informazioni e le analizza.
È giusto che alcune informazioni restino ignote ai cittadini?
Certe informazioni non possono essere date in pasto a tutti perché potrebbero mettere in difficoltà l’organismo, le persone che hanno operato, i metodi. Ne va della sicurezza dello Stato. Devono passare molti anni, bisogna aspettare il momento in cui il rischio di danni sia azzerato e per questo ci sono degli organismi che valutano se e quali informazioni desecretare.
Si dice che quando il lavoro dei servizi segreti non si nota, è fatto bene.
Quando i servizi fanno qualcosa di corretto, non vanno a sbandierarlo. Bisogna intervenire cinque secondi prima e non cinque secondi dopo. L’obiettivo è dare la possibilità di capire cosa sta accadendo e quindi permettere ai decisori di fare scelte adeguate. In questo siamo diversi dalle forze dell’ordine e spesso gli interessi non coincidono: loro mirano a reprimere i reati, noi dobbiamo prevenire e ottenere informazioni utili agli interessi nazionali, ragione per cui entriamo in contatto con esponenti delle organizzazioni.
Dalla sentenza del Tar emerge che, una volta trasferito a Rimini, lei ha svolto indagini e scritto una relazione "su presunte infiltrazioni mafiose tra politici locali, imprenditori sammarinesi ed esponenti della ‘ndrangheta".
Erano emersi collegamenti tra esponenti della politica e delle cosche, inseriti in attività di videogioco tramite società con sede a San Marino. La ‘ndrangheta era in grado di installare software contraffatti nelle slot per aumentare i profitti delle società. Da quelle ricerche emergevano aziende citate in alcune indagini penali. Poteva essere avviata un’inchiesta su certi evasori, ma sono stato fermato.
Di quali altri ambiti si è occupato?
Di terrorismo internazionale. Per anni ho avuto contatti continuativi con un alto esponente del Pkk (Partito curdo dei lavoratori, fondato da Abdullah Ocalan per l’indipendenza del Kurdistan dalla Turchia, che lo ritiene una formazione terroristica così come gli Usa e l’Unione europea, ndr), un uomo molto vicino a Ocalan.
In che modo dice di essere stato mobbizzato?
Era una situazione cominciata anni prima, quando sono stato trasferito da un giorno all’altro dal centro in cui lavoravo da decenni e destinato a Roma. Da una lettera anonima ho saputo che il mio superiore aveva chiesto di spostarmi per una presunta incompatibilità ambientale. Da Roma, dopo aver dimostrato errori di valutazione sul mio conto, ho chiesto di essere riavvicinato alla mia famiglia e mi hanno mandato a Rimini. L’ufficio era in una caserma, cosa inammissibile per noi: i nostri uffici devono essere in luoghi anonimi, altrimenti verremmo identificati come uomini di una forza di polizia. Lì, a seguito delle mie attività, fu trasferito il personale, mi furono tolti i mezzi, dovevo provvedere personalmente alla pulizia del mio ufficio e, soprattutto, il mio computer non era abilitato a entrare nelle nostre reti. Non potevo neanche scaricare le e-mail operative interne.
Come si è arrivati a questo punto?
Ancora oggi me lo domando, ho sempre dato il massimo al lavoro. Mi sono trovato l’amministrazione contro e non ho mai capito perché. Al processo non mi hanno dato neppure la possibilità di fare intervenire dei testimoni, non sono stati presi in considerazioni documenti a mio parere importanti.
Ci sono problemi di rivalità tra agenti?
La rivalità è normale, è giusto che ci sia e porta anche un beneficio. Il problema è quando non nasce dalla professionalità, ma da una raccomandazione.
Assolutamente sì. Non c’è meritocrazia, ma la telefonata del politico di turno, tant’è che Franco Gabrielli ha dovuto ammonire il personale dei servizi dall’avere contatti coi politici (dopo il caso dell’incontro tra Matteo Renzi e l’ex funzionario Marco Mancini, ndr). Non c’è la possibilità di essere messi a confronto con altri su quanto è stato fatto. Io sono uno dei pochi funzionari promossi attraverso uno dei due concorsi fatti dall’amministrazione.
Le sue sono accuse gravi.
Non sono accuse, è la realtà. Tutti sanno, ma nessuno lo dice.
Esistono le raccomandazioni, non c’è meritocrazia. Sono uno dei pochi funzionari promossi attraverso un concorso fatto dall’amministrazione
Dalle sue parole emerge rispetto per “l’amministrazione”, nonostante il mobbing. Perché?
Perché era la mia amministrazione e non c’entra se alcune persone la usano per i propri interessi. Ricordo un diverbio con un collega arrivato dalla guardia di finanza. Mi diceva che se non si fosse trovato bene, sarebbe tornato alla sua amministrazione. Gli avevo fatto notare che lui era nell’amministrazione, ma aveva la testa alla guardia di finanza. Essere nei servizi è un vanto, sono una struttura d’élite.
Perché ha accettato di parlare con noi?
Dopo tre anni in cui ho subito angherie, ho cercato di far valere i miei diritti, calpestati da una sentenza che fa acqua da tutte le parti; una sentenza che a me non sembra scritta in un palazzo di giustizia ma in altri uffici. Sono un analista del servizio e dopo tanti anni ho imparato a leggere dove molte persone non leggono. Mi fa specie che tutti i problemi di mobbing vengano trattati nei tribunali del lavoro mentre quelli che riguardano i dipendenti degli organismi di informazione e sicurezza siano giudicati solo dal Tar del Lazio, che è un tribunale amministrativo.
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