3 marzo 2022
È passato oltre un anno dall’inizio del maxiprocesso Rinascita-Scott, nell’aula bunker di Lamezia Terme. Sono anche già arrivate le prime condanne in rito abbreviato. Da quel 23 dicembre 2019, quando l’operazione guidata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro è stata annunciata e si effettuarono oltre 400 arresti (non tutti poi convalidati) la provincia di Vibo Valentia ha subito più di uno scossone. Ricordiamo la sparatoria e tentato omicidio in centro a Vibo Valentia, a ottobre, che ha coinvolto uno degli imputati di Rinascita, oppure il ritrovamento di un cadavere carbonizzato, nella zona di San Calogero a metà febbraio, di un uomo già nel mirino dei clan della piana. Più di recente, un’altra sparatoria a Ricadi, il pestaggio di un quindicenne a Paravati di Mileto da parte di coetanei, e ancora violenze tra minorenni a Vibo città. E poi ci sono state altri eventi meno visibili se non fosse per il contesto generale; per esempio, l’affronto del taglio dell’Albero della Legalità, piantato dentro una scuola.
C’è chiaramente un diffuso malessere sociale sul territorio che in molti non vogliono e non possono accettare. Libera nel suo presidio provinciale spinge con forza la comunità a reagire prendendo coscienza di questo malessere, ma non può farlo solo Libera.
Dov’è dunque la Rinascita, evocata e auspicata, del maxiprocesso?
Si resti arrinesci, ovvero: rinascere in terra di 'ndrangheta
Per capire cosa ci racconta – o forse ci urla – il malessere vibonese, bisogna capire la forza della sua mafia, le ragioni e le modalità per cui è da considerarsi ancora una pericolosa influenza sul tessuto sociale. Dire che a Vibo Valentia e provincia c’è la ‘ndrangheta sembra una cosa ovvia, ma di ovvio in effetti c’è ben poco, perché l’unitarietà della ‘ndrangheta è sempre da ricercare al di là degli slogan e dell’evidenza giudiziaria. Si dice spesso che tutti i clan di ‘ndrangheta sembrano – vogliono? – "salire alla Montagna", in Aspromonte, al simbolico santuario della Madonna di Polsi, per andare a ricevere il benestare dell’aristocrazia della ‘ndrangheta, i clan di San Luca, per la formazione dei cosiddetti locali, le strutture territoriali che riuniscono le ‘ndrine. Essere riconosciuti da Polsi significa ricevere il sigillo di garanzia e la protezione del brand criminale. Più si è legati al "centro", al "cuore", a Polsi, più si è protetti, forti, e avvolti sia dal mistero che dal terrore che sono elementi costitutivi della ‘ndrangheta. Eppure, ‘salire alla montagna’ non è obbligatorio, anche se poi in realtà diventa la scelta più ovvia. Ci racconta il collaboratore Paolo Iannò: “I locali sono riconosciuti dal Crimine di Polsi. Se un locale non è riconosciuto dalla ‘montagna’ di Polsi non significa che non ci possa essere un potere criminale su quel territorio, tuttavia era necessario il riconoscimento per avere un punto di riferimento a tutti noto e da tutti rispettato. Questo riferimento comune è la forza di tutta la ‘ndrangheta”.
Come avviene dunque – quando avviene – il riconoscimento per i clan vibonesi? Ho analizzato le storie narrateci dai collaboratori o nelle conversazioni intercettate e presentate in Rinascita-Scott e nelle sue operazioni collegate, in una prospettiva, quella della "narrative criminology", che guarda al potere che le storie hanno nella creazione di fenomeni dannosi e criminali. La costituzione, tramite riconoscimento, della ‘ndrangheta vibonese, sembra realizzarsi attraverso un vero e proprio script – una narrazione articolata in tre fasi:
La socializzazione, di un individuo, già legato alla criminalità locale, nella ‘ndrangheta, nei suoi riti, nelle sue regole;
Il ricorso a legami tramite linee criminali, di solito rappresentati da membri di famiglie dal cognome ‘pesante’, che possono portare – con un certo grado di discrezionalità – al riconoscimento di ‘ndrina/locale;
L’accreditamento, da una delle famiglie di ‘ndrangheta collegata fino a Polsi, tramite le diverse linee criminali.
La ‘ndrangheta del vibonese ha storicamente cercato e ottenutoil riconoscimento dalla struttura madre aspromontana, spesso muovendo nel suo territorio – tramite il gruppo forte facente capo ai Mancuso, oppure, in opposizione o aggiunta a loro, legandosi ad altre linee criminali. Non ci sono però solo i Mancuso, storicamente allineati alla ‘ndrangheta reggina dagli anni Ottanta, tanto che il loro locale rappresenta per molti il riferimento dei reggini a Vibo, il Crimine vibonese. Ci sono anche altri clan, come i Bonavota di Sant'Onofrio o i Piscopisani di Piscopio, il cui legame con la ‘ndrangheta reggina è diverso: per i primi, nonostante il legame storico del patriarca alla ‘ndrangheta aspromontana, i collaboratori parlano di una vicinanza ultima alla Provincia di Crotone (ora autonoma da Reggio) e di un’opposizione storica ai Mancuso. Per i secondi, il riconoscimento è passato per i Commisso e i Pelle di San Luca, ma il loro allineamento è con i Mancuso. Per altri, come il clan Accorinti di Zungri o le ‘ndrine di Filandari il collegamento principale con Polsi sarebbero stati proprio i Mancuso. Per altri ancora altre linee alternative o aggiuntive sembrano confermare i legami reggini: per esempio, i legami coi Bellocco o i Piromalli per i gruppi di Vibo città.
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Chi si appresta alla socializzazione e alla ricerca di linee di accreditamento criminale utilizza la violenza come mezzo per sfogare frustrazioni e risolvere conflitti, manifestare disprezzo delle autorità e dei principi di legalità
Nel ricercare questo riconoscimento, la ‘ndrangheta del vibonese ci ricorda quello che non sempre viene messo a fuoco. Nella ‘ndrangheta certo si nasce, la ‘ndrangheta è certo ancora eredità di famiglia, ma sempre più l’ingresso nella ‘ndrangheta è questione di scelta. Perché conviene.
Cosa c’entra questo con gli ultimi fatti di cronaca locale? Sta in quello script del riconoscimento di cui sopra, diffuso nel Vibonese, la pericolosità della ‘ndrangheta della provincia, proprio oggi che molti dei suoi clan stanno a processo.
La violenza – sparatorie, omicidi tentati e omicidi riusciti – contro nemici, affiliati e persone più o meno nel mirino dei clan a queste latitudini è componente della socializzazione al fenomeno mafioso (sappiamo come la ‘ndrangheta si sia fondata sulla violenza). Con questa socializzazione arrivano anche mitologie, appropriazione di simboli e storie altrui, ancora capaci di affascinare per la segretezza e il misticismo che li avvolge. Le linee di criminalità, i legami discrezionali verso il riconoscimento e poi l’accreditamento sono già attivati e sempre attivabili, sia per i canali tradizionali (tramite, per esempio, il clan egemone del territorio, i Mancuso), sia per canali un tempo nemmeno previsti (come la Provincia di Crotone, una struttura che a detta dei collaboratori esiste da una decina d’anni o poco più).
C’è dell’altro a corroborare questa tesi. Alcuni dei clan vibonesi si caratterizzano per un particolare attaccamento alle regole formali, ai rituali, alle formalità della ‘ndrangheta. Molto più di quanto lo siano i clan aspromontani, che quei rituali e quelle regole le hanno create, e molto più di quanto ci tengano i clan egemoni sul territorio o quelli coi cognomi ‘pesanti’ tra le province – la cui reputazione non deve costantemente venir confermata dalle formule.
La mafia del vibonese – che è violenta, radicata e presente nell’economia e nella società del territorio – cerca dunque di costruirsi un’identità, e sceglie ancora di cercarla – e spesso trovarla – nella ‘ndrangheta. Chi si appresta alla socializzazione e alla ricerca di linee di accreditamento criminale utilizza la violenza come mezzo per sfogare frustrazioni e risolvere conflitti, manifestare disprezzo delle autorità e dei principi di legalità. Perché lo Stato qui che fa? Prova a capire, tenta di rispondere, ma spesso ha i mezzi per farlo solo formalmente, e non concretamente.
Quando è morta Nora Mancuso, a soli 44 anni a Limbadi – figlia di Giuseppe Mancuso, detto ‘Mbrogghja, scarcerato a novembre 2021 dopo 24 anni e riconosciuto tra le figure apicali del gruppo Mancuso – le autorità hanno vietato, comprensibilmente, i funerali pubblici. I commenti sui social, di compaesani e non, in supporto alla famiglia e biasimando la decisione delle autorità – di dubbio gusto ma a volte forse anche dal retrogusto umano, chissà – insieme agli scivoloni delle autorità locali nel distaccarsene o nel condannare apertamente tale supporto, sono il triste segno di quanto difficile ancora sia "comunicare" di mafia e giustizia sociale in questa provincia. Ancora una volta, l’azione dello Stato viene vista come punitiva, o quanto meno divisiva, in un territorio in cui gestire le relazioni sociali è molto difficile. La distinzione tra vittime e carnefici risulta tanto più difficile quanto più confuse sono le relazioni e quindi le identità sociali.
Se la ‘ndrangheta è ancora una scelta, è perché la socializzazione alle sue dinamiche e valori avviene anche nelle piazze dei paesi, e perché si tratta di una scelta percepita ancora come identitaria. Una provincia dove l’economia è al collasso, la scuola è a rischio estinzione, agli enti locali manca pure il personale e la sanità è quasi un privilegio, è una provincia gravemente malata, la cui identità comunitaria stenta a emergere. E a un malato servono vaccini e cure, non solo antinfiammatori per contenerne i sintomi.
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