26 gennaio 2021
Nel 1980 a Nicotera, in provincia di Vibo Valentia, Giuseppe Valarioti – consigliere comunale del Pci a Rosarno – viene assassinato dalla ‘ndrangheta. Dopo 40 anni di indagini approssimative, processi e depistaggi, L’utopia di un intellettuale di Rocco Lentini – uscito a dicembre per Città del sole – ne ricostruisce la storia. A metà tra biografia e inchiesta, il libro corregge alcune letture approssimative e lacunose e apre una serie di interrogativi sui protagonisti di quel tempo, finiti oggi nelle più recenti e importanti indagini in corso sulla mafia calabrese: dall’inchiesta Mamma santissima al processo Gotha.
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L’ultimo episodio di cronaca che si lega alla morte dell’intellettuale parte nel 2010 e si chiude il 6 aprile 2019. Il collaboratore di giustizia Arcangelo Furfaro invia una lettera al Consiglio superiore della magistratura (Csm), ora agli atti del processo Gotha a carico dei vertici della ‘ndrangheta reggina. Parla di Giuseppe Tuccio – il pm che nel primo processo sull’omicidio Valarioti chiese la condanna all’ergastolo per il boss Giuseppe Pesce e poi, nel secondo processo, cambiò idea avanzando la richiesta di assoluzione con formula dubitativa – definendolo “un magistrato corrotto. Custode e protettore dei Piromalli”. Nella lettera il pm è dipinto come una serpe.
Lo calunnia? Non è il solo. Il nome del magistrato era emerso già con il clan Piromalli nel 2007 nell’ambito del processo Cent’anni di storia. Gli ‘ndranghetisti di Gioia Tauro riescono a sapere di avere gli investigatori con il fiato sul collo da Aldo Miccichè, un faccendiere al centro di operazioni finanziarie in Venezuela assieme al figlio del senatore Marcello Dell’Utri. Miccichè sostiene di essere stato informato da due magistrati in pensione, Giuseppe Tuccio e Giuseppe Viola. “Amici miei di vecchissima data... molto importanti... anche se sono in pensione sanno quello che succede”, dice. Certamente un millantatore, Aldo Miccichè. Pregiudicato, arrestato in Venezuela nel 2012 ed estradato in Italia nel settembre 2013 in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip su richiesta dei magistrati reggini per associazione mafiosa.
2016, estate. Nell’ambito dell’inchiesta Mamma Santissima viene emessa un’ordinanza di custodia cautelare per associazione mafiosa nei confronti di settantadue persone, tra i quali: Tuccio (indagato e a piede libero), il senatore Antonio Caridi, l’ex deputato Paolo Romeo e l’ex assessore regionale Alberto Sarra. Per gli investigatori, potrebbero essere membri della cupola dell’associazione criminale. Caridi, concessa l’autorizzazione parlamentare, si costituisce e viene arrestato.
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Il 9 marzo 2017 il gup Pasquale Laganà rinvia il senatore Caridi a giudizio con l’accusa di associazione mafiosa. Il procuratore Federico Cafiero De Raho, l’aggiunto Paci e i sostituti Lombardo, Di Palma, Musolino, Pantano e Ignazitto riuniscono nel processo Gotha le più importanti inchieste antimafia del 2016. Un maxiprocesso, porta alla sbarra il direttorio della ‘ndrangheta. Gli invisibili sono accusati di far parte di un’associazione segreta, capace di infiltrarsi negli enti locali dettandone gli indirizzi politici. A marzo 2018 si conclude il primo grado del processo: sono condannati 34 dei 38 imputati che hanno chiesto il rito abbreviato. Il senatore Caridi, arrestato nel 2016 con l’autorizzazione del Senato, viene rimesso in libertà.
2020, settembre. Dopo le schermaglie procedurali, le sentenze sui ricorsi presentati in Cassazione e il rinvio per l’emergenza Covid-19, inizia il processo per il secondo troncone dei rinviati a giudizio. Restano imputate 34 persone, tra le quali Paolo Romeo e Antonio Marra, il parroco di San Luca Giuseppe Strangio, l’ex senatore Caridi e l’ex magistrato Tuccio. I processi non significano colpevolezza, questa, se c’è, deve essere certificata da sentenza definitiva. Ma la vicenda giudiziaria del magistrato Tuccio si chiude prima e si chiude nel dubbio. Non sarà condannato, né assolto. È deceduto a Reggio Calabria il 6 aprile 2019. I sospetti sull'omicidio Valarioti non possono essere fugati.
Prima che politico, Giuseppe Valarioti è intellettuale, uno dei pochi ad avere il coraggio di guardare in faccia la realtà con metodo, rigore e capacità. Dopo la laurea nel 1974, tiene lezioni di doposcuola di lettere e filosofia per i giovani rosarnesi. Nel 1975 pubblica un saggio sulla questione meridionale, dimostrando una conoscenza inusuale per un ragazzo di venticinque anni della bibliografia sull’argomento. Il lavoro, ancorato alle belle pagine di Benedetto Croce, punta all’analisi dei mali del Mezzogiorno, delle condizioni di arretratezza, e la sua lettura è di una straordinaria visione prospettica, anche alla luce di recenti linee storiografiche, che tendono a retrodatare le cause storiche delle diseguaglianze e a distinguerle dal processo unitario ritenuto, a torto, come elemento fondamentale del divario Nord-Sud.
Nella società degli anni Settanta, impostata sulla difesa esasperata dal culto dei diritti, Valarioti parla anche di doveri. E parlare di doveri è talmente rivoluzionario da suscitare la reazione di quanti, in quel sistema, drenano risorse dalle casse dello Stato. Integerrimo, infuocato dalla passione politica, dai profondi convincimenti democratici, è dedito al culto dei valori della Costituzione, l’amore per la libertà, il rispetto per la dignità umana, la solidarietà nei confronti degli umili e degli oppressi. Ama la musica, le arti, la bellezza, che vuole siano godute da tutti e soprattutto dai poveri. L’insegnamento, sostiene, è lo strumento più potente per trasformare la società meridionale, forse più forte della politica. Insiste sulla necessità che i giovani imparino a usare parole nuove e sull’importanza di trasmettere la fiducia in un mondo più pulito, di cose semplici e belle, in cui l’onestà ha più valore della prepotenza, la lealtà e la solidarietà più del successo ottenuto calpestando regole morali e leggi dello Stato.
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Poi si fa avvolgere dalla vampa della politica. È protagonista nelle Leghe per l’occupazione, che diventano movimento di massa, invadono e provano a mettere in produzione, attraverso migliaia di cooperative, centinaia di migliaia di ettari di terre incolte e abbandonate del Mezzogiorno sotto il tiro dalla criminalità, che vede così minata la propria supremazia. Negli anni in cui un imponente movimento collettivo guarda alla rivoluzione come aspettativa fondamentale della propria esistenza, Valarioti sceglie il partito comunista (Pci), l’unico in grado di contrastare il declino della democrazia, dei diritti compressi tra ‘ndrangheta, potere e attacco di frange armate.
Le doti di equilibrio, il carattere mite e la nobiltà degli ideali, lo portano a prendere in mano il partito rinnovandolo con energia. Nel giugno del 1979 si candida alle comunali, una sfida ardua in un paese dove la commistione tra politica e criminalità è fortissima. Eletto, si batte contro la speculazione edilizia e per la salvaguardia del sito archeologico magnogreco di Medma.
Nel 1980 Valarioti scopre che alcuni dirigenti, corrotti o per paura, neanche provano ad arginare i tentativi di infiltrazione dalla ‘ndrangheta: “Bisogna andare fino in fondo senza guardare in faccia nessuno”
Nel frattempo, a Rosarno un associazionismo fiorente ruota attorno alla cooperativa Rinascita. Nata con quaranta soci nel 1971, all’inizio degli anni Ottanta ne conta più di mille e si impone, grazie all’apporto di conferimento leale e ordinato dei soci, come la più grossa realtà economica agricola della provincia di Reggio Calabria. I soci rappresentano oltre 2.500 ettari di terreni coltivati ad agrumi. Il fatturato è miliardario e scatena appetiti. Valarioti non fa parte degli organismi di gestione, tuttavia segue con attenzione la cooperativa, consapevole di aver liberato i produttori dal giogo della ‘ndrangheta che controlla la commercializzazione del prodotto. I contadini cominciano a trasformare in benessere la loro fatica.
1980, gennaio. Valarioti capisce che qualcosa non funziona. Osserva quello che avviene al momento del conferimento. Gli stessi camion scaricano con frequenza mentre i piccoli proprietari si mettono in fila ordinatamente, con ogni mezzo, per attendere il loro turno. Rilegge i meccanismi del conferimento. Si rende conto di ciò potrebbe stare alla base degli interessi delle cosche: la truffa delle arance di carta. Riportano alla cooperativa, più volte, le arance destinate al macero per ottenere le “bollette” che danno diritto all’integrazione dell’Azienda statale per gli interventi sul mercato agricolo (Aima, poi sostituita dall'Agenzia per le erogazioni nell'agricoltura, Agea). Scopre che alcuni dirigenti, corrotti o per paura, neanche provano ad arginare i tentativi di infiltrazione dalla ‘ndrangheta. Chiama tutti al senso di responsabilità, all’estremo rigore morale: “Bisogna andare fino in fondo senza guardare in faccia nessuno”.
1980, giugno. Tornata delle elezioni regionali e provinciali. Una campagna elettorale infuocata. A Rosarno il Comune è in mano ai socialisti. Non è in gioco l’amministrazione comunale, ma la gestione di qualcosa che ne vale dieci, venti: il rapporto di potere interno alla cooperativa Rinascita. Nei comizi rionali attacca a spada tratta, con nomi e cognomi, denunciando lo strapotere mafioso sulla città e sulla Rinascita. La risposta non tarda: i manifesti del Pci scollati e riattaccati al rovescio, le minacce continue, l’attentato alla sede del partito, l’auto di Giuseppe Lavorato, militante del Pci (e anni dopo deputato), data alle fiamme.
Il 10 giugno Valarioti è a casa di Lavorato. Prendono un caffè e cominciano ad arrivare i primi risultati: il Pci è il primo partito di Rosarno. Ha battuto il cartello affaristico-mafioso. Fausto Bubba, direttore della cooperativa, viene eletto alla Regione, mentre alla Provincia va Giuseppe Lavorato. Urla, canti, pugni chiusi, gioia e stanchezza. Dopo giorni trascorsi saltando i pasti e il sonno, si pensa di concludere la serata con una cena. Ore ventidue. Si decide di andare alla trattoria La Pergola. Ore ventiquattro. I comunisti pagano il conto ed escono.
Valarioti esce per primo e si avvia verso l’auto parcheggiata davanti al vialetto che porta all’ingresso del locale. Sta infilando le chiavi nella serratura della portiera, è girato di spalle a un albero coperto da una siepe di rampicanti che delimita l’area dove sorge La Pergola, da lì una lupara scarica due lampi di fuoco. Si accascia in un mare di sangue, non fa in tempo ad aprire lo sportello. Gli altri sentono i colpi e tornano indietro, qualcuno riferisce del rombo di un’auto, la vede: una 127 color celestino, ricorda anche i primi numeri della targa RC 2266**. Lo adagiano su un’auto che corre all’impazzata verso l’ospedale. Sanguina, sospira, si lamenta. Aiutatemi, “cumpagni, mi ‘mmazzaru”. Non c’è più nulla da fare, muore alle porte di Gioia Tauro. È passata la mezzanotte, è l’11 giugno del 1980. La fine di un’utopia, il disegno di una società nella quale gli uomini avrebbero potuto realizzare una convivenza felice, ordinata, pacifica e il bene collettivo: l’impegno politico e intellettuale di Giuseppe Valarioti.
Seguono indagini approssimative, depistaggi e un processo con una sentenza che assolve il boss di Rosarno. Stranamente nessuno propone appello. Né il pubblico ministero Giuseppe Tuccio che aveva chiesto l’ergastolo per i responsabili, né il collegio di difesa.
Poco più di un anno dopo un fatto nuovo riapre la speranza di avere almeno una verità processuale. Il capitano Gilberto Murgia cattura il latitante Pino Scriva. Scriva conosce la ‘ndrangheta dall’interno, è depositario di tanti segreti. Parla. Racconta tutto. La ‘ndrangheta trema. Si fa luce su trentuno omicidi, quattro sequestri di persona, la strage di Razzà di Taurianova, il delitto Valarioti. Per l’omicidio fa i nomi di mandanti ed esecutori. Si avvia un nuovo processo, ma Scriva viene ritenuto inattendibile per le rivelazioni sull’assassinio di Valarioti e attendibile sul resto. Il processo bis fallisce prima di cominciare senza giungere al dibattimento. Tuccio, che aveva sostenuto l’accusa nel primo processo chiedendo l’ergastolo per Giuseppe Pesce, cambia idea e chiede l’assoluzione degli imputati con formula dubitativa. Il giudice istruttore del tribunale di Palmi, Antonino Spataro, rigetta la richiesta del pm: nessuna formula dubitativa, i cinque accusati sono prosciolti con formula piena. È il 26 febbraio del 1987.
14 giugno 1987, elezioni politiche. Il pm Tuccio si candida al Senato nel collegio elettorale di Palmi. Scoppia un putiferio. I radicali di Marco Pannella denunciano tutto al Csm, al ministro della Giustizia e al procuratore generale della suprema corte di Cassazione per violazione della legge elettorale. La legge prevede che, in caso di elezioni anticipate, i magistrati non possano essere candidati nelle circoscrizioni sottoposte alla giurisdizione degli uffici presso i quali hanno esercitato le loro funzioni nei sei mesi precedenti l’accettazione della candidatura. Tuccio non sarà eletto.
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2004. C'è un altro processo recente che ha destato sospetti sull'omicidio di Valarioti. Riguarda un militante del Pci e sindacalista in contatto con le cosche. “I boss calabresi si erano riuniti più volte per spartirsi le ‘competenze’ sui 500 chilometri di lavori di ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria. Alla ‘ndrangheta spettava il 3% del valore delle opere, in più tutti i lavori di movimento terra e la fornitura del calcestruzzo”. Secondo gli investigatori, ai Mancuso andava la competenza nel tratto Pizzo Calabro-Serra San Bruno, ai Pesce il tratto tra Serre e Rosarno, ai Piromalli quello tra Rosarno e Gioia Tauro: opere per oltre cento milioni di euro finiti nelle tasche delle ‘ndrine del vibonese e del reggino.
La figura centrale dell’inchiesta è Noè Antonio Vazzana, uno dei commensali a La Pergola. Militante del Pci e della Cgil, ha ricoperto incarichi direttivi e fatto parte di esecutivi della Fillea fino alla designazione nella cassa edile di Reggio Calabria. “Il sindacalista – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare – risulterà essere il trait-d’union tra l’impresa Baldassini-Tognozzi e le cosche della Piana”. Al processo, concluso nel luglio del 2009, gli imputati chiedono il rito abbreviato. Al termine della requisitoria il pm della dda di Reggio Calabria, Roberto Di Palma, chiede la condanna di 39 imputati e l’assoluzione per 14 persone. Con la sentenza emessa dal gup di Reggio Calabria, Santino Melidona, sono condannati otto imputati. Nel processo di appello del 2012 l’operazione Arca si sgonfia e i boss vengono assolti. A Vazzana, ritenuto responsabile, vengono inflitti sei anni di reclusione.
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