Aggiornato il giorno 25 settembre 2023
Per decenni ha avuto rapporti stretti con i capi della mafia di Trapani e Corleone, prima come uomo d’affari, poi come politico eletto a Roma. Qualunque fosse il suo ruolo, si è dato molto da fare per difendere Cosa nostra e i suoi affari. La storia di Antonio D’Alì – rappresentante di una famiglia della borghesia trapanese, dal 1994 senatore di Forza Italia e dal 2001 al 2006 sottosegretario di Stato al ministero dell’Interno – si intreccia con quella di Matteo Messina Denaro e la sua famiglia: il padre dell’ultimo boss stragista era, infatti, il custode dei terreni della famiglia D’Alì.
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Il politico è finito in carcere il 14 dicembre 2022, un mese prima dell’arresto del latitante, avvenuto a Palermo il 16 gennaio 2023. Il giorno prima di consegnarsi al penitenziario di Opera, a Milano, D’Alì era stato condannato definitivamente a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa con l’accusa di essere stato a disposizione di Cosa nostra almeno fino al 2006, stesso reato per cui sono stati condannati altri politici siciliani vicini a Silvio Berlusconi, come Marcello Dell’Utri e Salvatore Cuffaro. Nelle motivazioni depositate il 18 settembre 2023, i giudici della Suprema corte respingono in toto i ricorsi – ritenuti infondati – degli avvocati di D'Alì, Arianna Rosaria Rallo e Giovanni Aricò.
L’inchiesta era cominciata nel 2007, periodo in cui D’Alì era sottosegretario al ministero dell’Interno del governo Berlusconi-2, mentre il processo si è aperto quattro anni dopo, nel 2011, ma già da tempo l’imputato era un politico chiacchierato. “Mai avuto avvisi giudiziari”, dichiarava D’Alì il 6 febbraio 2006 in un’intervista a Il Giornale della famiglia Berlusconi, affermando che “le esagerazioni fanno il gioco della mafia” e che la Banca Sicula, fondata dalla sua famiglia e sospettata di riciclare il denaro di Cosa nostra, “è stata sottoposta a regolari ispezioni di Bankitalia e nulla di ciò è risultato”.
“Mai avuto avvisi giudiziari”, dichiarava D’Alì il 6 febbraio 2006 in un’intervista a Il Giornale della famiglia Berlusconi, affermando che “le esagerazioni fanno il gioco della mafia”
Agli atti del Senato restano iniziative parlamentari come la proposta di aprire una casa di gioco a Erice o creare una zona franca – senza imposte e dazi – in provincia di Trapani. I magistrati hanno accertato che D’Alì ha cercato a lungo di agevolare gli affari illeciti di Cosa nostra, “mettendo a disposizione” della mafia “le proprie risorse economiche e, successivamente, il proprio ruolo istituzionale”.
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Secondo l’accusa, anche per riceverne sostegno elettorale, aveva avuto “rapporti diretti o mediati” con molti boss, tra i quali Matteo Messina Denaro, Vincenzo Virga, Francesco Pace, Antonino Birrittella e Tommaso Coppola. Assolto in primo e secondo grado per i fatti commessi dopo il 1994, prescritti i reati commessi prima di quell’anno, nel 2018 la Cassazione ha ordinato un nuovo processo che si è concluso nel luglio 2021 con la dimostrazione della “prolungata e multiforme disponibilità del D'Alì a favorire Cosa nostra sia nell'ambito della sua attività imprenditoriale, sia nell'ambito della sua attività politica”. Secondo i giudici, le azioni di D’Alì hanno viziato “l’esercizio del diritto di voto di parte del corpo elettorale” e messo “a rischio il corretto esercizio della funzione pubblica”.
Il primo episodio che prova la vicinanza e il rapporto di fiducia tra D’Alì e i principali esponenti di Cosa nostra, riguarda la cessione di un terreno a Castelvetrano, il fondo nella contrada Zangara. Stando a quanto raccontato dalla prima moglie del politico, Maria Antonietta Aula, in un’intervista del 2009 a Il Fatto Quotidiano, a mediare per la cessione era stato il custode che lavorava su quei terreni per conto della famiglia D’Alì, ossia Francesco Messina Denaro, padre di Matteo, che propose la cessione a Totò Riina, boss dei Corleonesi.
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Sulla carta la proprietà rimase a D’Alì, per impedire che il fondo fosse confiscato dallo Stato, per passare poi a un prestanome di Riina, Francesco Geraci. Per giustificare il passaggio coprendo il reale proprietario, D’Alì ricevette 300 milioni di lire che restituì (in nero) a rate da 20 milioni di lire in contanti a Geraci, che a sua volta li consegnò a Messina Denaro, latitante dal giugno 1993.
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L’ultima rata fu pagata il 10 gennaio 1994, una data cruciale: di lì a poche settimane si votava per le elezioni politiche, le prime della stagione post-Tangentopoli, con la creazione di Forza Italia e la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Secondo i giudici di primo e secondo grado, quella data segna la fine dei rapporti tra D’Alì e i boss. Per la Cassazione e altri magistrati, invece, è soltanto un passaggio di una relazione molto lunga.
“Che io sappia il Virga (Vincenzo, capomafia di Trapani, ndr), se aveva bisogno di qualcosa dai D’Alì si rivolgeva ai Messina Denaro perché era risaputo che i Messina Denaro con i D’Alì erano in buonissimi rapporti”, ha spiegato nel corso del processo il pentito Vincenzo Sinacori, boss di Mazara del Vallo e amico di Messina Denaro. Un altro pentito, Antonino Birrittella, nei primi anni Duemila aveva riferito di aver saputo che già prima del 1994 il politico era a disposizione di Cosa nostra pure nella sua attività di banchiere a capo della Banca Sicula, fondata dalla famiglia D’Alì nel 1883, ceduta nel 1991 alla Banca commerciale italiana e quindi confluita in Intesa. “Si parlava del D'Alì come di persona che, quando ricopriva le funzioni di presidente della Banca Sicula, poteva garantire un facile ricorso al credito”.
Nei prima anni Duemila, il pentito Antonino Birrittella aveva riferito di aver saputo che già prima del 1994 D'Alì era a disposizione di Cosa nostra pure nella sua attività di banchiere a capo della Banca Sicula
Questi affari sono stati confermati anche da don Antonino Treppiedi, un prete che raccoglieva le confidenze di D’Alì in persona. Nella Banca Sicula avrebbe investito il suo denaro il boss Mariano Agate di Mazara Del Vallo e all’interno dell’istituto di credito lavorava anche Salvatore Messina Denaro, fratello di Matteo. Proprio questo è uno degli aspetti che portò il commissario Nino Germanà, a capo della Squadra mobile della questura di Trapani, a indagare sulla Banca Sicula all’inizio degli anni Novanta. Il 14 settembre 1992 il poliziotto scampò all’agguato di un commando composto da Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano. Pochi mesi dopo aver consegnato un rapporto investigativo sulle attività della banca, Germanà fu trasferito.
Nello stesso periodo in cui terminò il passaggio di denaro tra D’Alì e Cosa nostra maturarono i presupposti per il sostegno della mafia al politico. Nei primi anni Novanta il sistema partitico fu travolto dalle inchieste anticorruzione di Mani pulite, grandi formazioni come la Democrazia cristiana e il Partito socialista andarono in crisi. In quel periodo – ha spiegato anni dopo ai giudici il pentito Sinacori, amico di Matteo Messina Denaro – Leoluca Bagarella (cognato di Riina) aveva ipotizzato la creazione di un soggetto politico chiamato Sicilia Libera, composto da “soggetti puliti”, ma di cui Cosa nostra poteva fidarsi per far approdare in parlamento le istanze della mafia.
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Il progetto però non ebbe seguito e Cosa nostra optò per il sostegno di Forza Italia, il partito fondato dall’imprenditore Silvio Berlusconi. D’Alì venne candidato tra le fila del nuovo partito nel 1993 da un uomo di Publitalia ‘80, Gianfranco Miccicché, voluto da Berlusconi quale coordinatore regionale di Forza Italia che, alle elezioni del marzo 1994, conquistò tutti i seggi siciliani. E grazie a questi risultati che D’Alì divenne senatore. Se vi riuscì, sostengono i magistrati, è stato anche grazie all’aiuto di Messina Denaro e di Cosa nostra.
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Cosa nostra fornì il suo supporto al politico anche alle elezioni del 2001. Ciò emerge anche dal rancore che alcuni boss nutrirono nei confronti di D’Alì, accusato di non aver fatto abbastanza per loro. Ne parla il pentito Nino Birrittella, riferendo ai giudici delle lamentele del capomafia trapanese Francesco Pace, suo compare, scontento perché il sottosegretario all’Interno non aveva trovato una soluzione, come promesso, alla confisca dei suoi beni, avvenuta nel 2005. I giudici ne deducono che D’Alì e Cosa nostra fossero ancora in intensi rapporti.
In altre occasioni, D’Alì si dimostrò prodigo nei confronti di alcune aziende mafiose o di imprenditori vicini a Cosa nostra. Lo dimostra il suo attivismo per mandare sul lastrico un’azienda confiscata dallo Stato a Pietro Virga, la Calcestruzzi Ericina, e per fermare l’azione del prefetto di Trapani Nunzio Sodano. Il politico era intervenuto “presso organi istituzionali e uffici pubblici al fini di inibire o ostacolare le iniziative a sostegno delle imprese sequestrate o confiscate” con l’obiettivo di contribuire “all'espansione economica e al controllo del mercato dei calcestruzzi da parte di imprese e società direttamente riconducibili all'associazione mafiosa”, tra cui la Sicil Calcestruzzi e la Vito Mannina.
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Dal 2001 D’Alì ricoprì il ruolo di sottosegretario al ministero dell’Interno e in questa veste ammonì Sodano, ricordandogli “la sua capacità di poter influenzare il trasferimento di un prefetto”. D’Alì contestò al prefetto il sostegno alla Calcestruzzi ericina a danno di altre aziende del territorio e quindi di alterare “il libero mercato (...) determinando una sleale concorrenza alle altre aziende del comparto”, legate più o meno direttamente a Cosa nostra.
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Secondo quanto riferito da Birrittella, il boss di Trapani Francesco Pace voleva operare un sistematico sabotaggio della ditta per mandarla in dissesto e magari rilevarla. Per farlo aveva bisogno che i clienti di questa passassero ad altre società, alcune controllate direttamente da Cosa nostra, come la Sicil Calcestruzzi (che faceva capo a Pace), altre di imprenditori contigui, come l’azienda Vito Mannina, oppure scese a patti (come la Calcestruzzi spa) con la criminalità organizzata.
Il prefetto Sodano, però, si oppose tentando di proteggere l’esperienza della Calcestruzzi Ericina e la presenza dell’azienda sul mercato. Il suo fallimento avrebbe costituito “una sconfitta per lo Stato e una vittoria per la mafia”. Nel luglio 2003 il funzionario fu trasferito ad Agrigento. Attraverso l’allora presidente della Regione Siciliana Totò Cuffaro, venne a sapere che il ministro dell’Interno Giuseppe “Beppe” Pisanu era stato “sfinito” dalle pressioni di D’Alì.
Oltre al prefetto Sodano, a Trapani un’altra presenza istituzionale infastidiva politici collusi e mafiosi della provincia. Era quella del dirigente della Squadra mobile Giuseppe Linares, un investigatore che a lungo ha dato la caccia a Matteo Messina Denaro e ai suoi fiancheggiatori. A testimoniare davanti ai giudici sulla questione fu ancora una volta don Treppiedi, il prete che raccoglieva le confidenze di D’Alì. Il politico e sua moglie Antonia Postorivo “ebbero a lamentarsi di una persecuzione investigativa” di Linares che “in molte occasioni aveva tentato di mettere in difficoltà il senatore, coinvolgendolo in vicende di mafia”.
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I due gli avevano riferito di essersi dati da fare per farlo trasferire, anche cercando di ottenere informazioni personali riservate “ed eventualmente compromettenti che potessero determinare un allontanamento”. Da un’indagine che riguardava Valerio Valenti, suo capo di gabinetto, era emerso che il sottosegretario all’Interno si stava dando da fare per raggiungere questo obiettivo e aveva incontrato la segreteria del capo della Polizia, Gianni De Gennaro.
Oltre al prefetto di Trapani Nunzio Sodano, un’altra presenza istituzionale infastidiva politici collusi e mafiosi della provincia. Era quella del dirigente della Squadra mobile Giuseppe Linares
D’Alì aveva accennato della necessità di cambiare aria, sempre per asserite ragioni di sicurezza, anche allo stesso Linares, in maniera diretta. “Mi disse testualmente ‘Sarebbe il caso che se ne andasse’ e mi disse che ero troppo esposto” ha raccontato Linares. Per il trasferimento, però, erano necessari anche i pareri di alcuni magistrati e alla fine, l’intervento di alcuni di loro, tra cui Andrea Tarondo e Teresa Principato, fermò le pratiche.
Linares ha lavorato a Trapani fino al 2010, per poi essere destinato alla Direzione investigativa antimafia di Napoli. Oggi a Roma dirige il Servizio centrale anticrimine.
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