Napoli, 9 maggio 2016. Imbrattato lo stencil sul muro del parco di Capodimonte, ispirato alla storica foto divenuta simbolo dell'Antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (Ciro Fusco/Ansa)
Napoli, 9 maggio 2016. Imbrattato lo stencil sul muro del parco di Capodimonte, ispirato alla storica foto divenuta simbolo dell'Antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (Ciro Fusco/Ansa)

Falcone e Borsellino chiesero aiuto, ma nessuno li ascoltò

L'esplosione di una bomba è rapida, violenta e inaspettata. Quelle che uccisero Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le loro scorte, invece, erano state previste e certe, non imprevedibili. Per questo lo Stato non doveva isolarli

Roberto Saviano

Roberto SavianoScrittore

17 maggio 2022

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Cosa c’è di più rapido, violento e inaspettato di un’esplosione? È a questo che pensiamo quando pensiamo a una bomba. Associamo il boato, il fragore spaventoso che percuote i timpani subito dopo la deflagrazione, a questi tre concetti. Rapidità. Violenza. Imprevedibilità. Nel caso delle bombe che hanno dilaniato la Sicilia nel 1992, stroncando le vite dei magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, e degli agenti di scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, ebbene in quel caso, se all’esplosione associamo i tre famosi concetti – rapidità, violenza, imprevedibilità – facciamo almeno un errore. Facciamo un errore perché mentre le esplosioni furono certo rapide e violente, non furono per niente imprevedibili. Anzi.

Oltre le scorte

Questi tre delitti furono tutti preannunciati da un grido disperato, da una richiesta d’aiuto. Fa male, ma è proprio quello che fecero Falcone, Borsellino e dalla Chiesa un attimo prima di morire. Chiesero aiuto. Ma non furono ascoltati

Spesso si dice che in quei giorni lo Stato ha perso, che il 23 maggio 1992 a Capaci e il 19 luglio dello stesso anno in via D’Amelio per lo Stato italiano hanno segnato una sconfitta. Ma si viene sconfitti quando si lotta. Nella sconfitta c’è sempre onore, c’è il riconoscimento implicito di uno sforzo. Qualcuno potrà dire che lo sforzo compiuto dallo Stato fu quello di assegnare una scorta ai giudici Falcone e Borsellino. Una scorta contro le bombe.

Era già chiaro che delle scorte, le bombe non sanno che farsene. Rocco Chinnici era saltato in aria il 29 luglio dell’83, insieme a Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, membri della sua scorta, quasi dieci anni prima. Morì anche il portiere del palazzo, Stefano Li Sacchi. Era chiarissimo che anche gli agguati a colpi di kalashnikov, o di semplici pistole, riescono a superare la barriera della scorta. I magistrati Pietro Scaglione, Cesare Terranova, il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, erano tutti accompagnati da uomini armati, e sono tutti morti.

Mi sono chiesto spesso cosa potesse fare lo Stato, come potesse proteggere quei suoi servitori, se di fronte a una volontà omicidiaria così potente, di fronte alla condanna a morte da parte delle mafie, la scorta o l’autista armato non sono un valido deterrente. Me lo chiedo ancora oggi, a trent’anni di distanza da quel maledetto 1992, quando ero ancora un ragazzino ma le tenebre in cui era piombato il nostro Paese potevo percepirle benissimo. Bastava avere occhi per guardare la tv e orecchie per ascoltare i discorsi degli adulti.
La risposta, credo che vada ricercata proprio nelle storie di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e del generale dalla Chiesa. Non perché la loro morte sia più dolorosa rispetto a quella di altri magistrati, prefetti, poliziotti, carabinieri e servitori dello Stato. Non perché sia più importante o più degna di essere ricordata, ma perché in queste tre storie – e in chissà quante altre – c’è un segno comune: è un segno che contraddice in maniera spietata, eclatante, quel concetto di “imprevedibilità” di cui ho parlato all’inizio. Questi tre delitti furono tutti preannunciati da un grido disperato, da una richiesta d’aiuto. Fa male, ma è proprio quello che fecero Falcone, Borsellino e dalla Chiesa un attimo prima di morire. Chiesero aiuto. Ma non furono ascoltati.

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La paura celata

"Credo di aver capito la nuova regola del gioco, si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma lo si può uccidere perché è isolato"Carlo Alberto Dalla Chiesa - Intervista a Giorgio Bocca

In un’intervista rilasciata a Giorgio Bocca, il generale dalla Chiesa, appena insediatosi come prefetto a Palermo e ancora in attesa dei "poteri speciali" promessigli dal governo per combattere le mafie, confessò: "Credo di aver capito la nuova regola del gioco, si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma lo si può uccidere perché è isolato". Cos’è questa, se non una richiesta d’aiuto? Cos’è, se non un grido d’allarme? Bisognava che dalla Chiesa dicesse a Bocca: "La prego, scriva sul suo giornale che vogliono ammazzarmi, che se lo Stato non mi darà quei famosi poteri speciali che aveva promesso, la mafia mi percepirà come un lupo lasciato solo dal branco, solo, vulnerabile, sacrificabile"? Uomini come lui non usavano queste formule. La paura, anche quella, la nascondevano sotto la nobile coperta della compostezza.

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"Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno"Giovanni Falcone - Intervista a Marcelle Padovani

Alla giornalista Marcelle Padovani, Giovanni Falcone, dopo che avevano bocciato la sua candidatura a capo dell’ufficio istruzione di Palermo, a componente del Csm, ad alto procuratore nazionale antimafia, dopo che sui giornali lo avevano chiamato "guitto televisivo", "Falcon Crest", presenzialista, sceriffo, dopo che alcuni avevano perfino insinuato che la prima bomba all’Addaura, sulla scogliera davanti casa, se la fosse piazzata da solo, disse chiaro e tondo: "Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere". Anche lui, cosa avrebbe dovuto dire? "Mi hanno isolato, mi stanno additando come un saltimbanco, stanno dicendo alla mafia che se muoio non fregherà niente a nessuno"?

"Siamo cadaveri che camminano"

Paolo Borsellino, anche lui attaccato da più parti, fu oggetto perfino di un articolo di Leonardo Sciascia nel quale lo scrittore osservava che "nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso". Ebbene, durante un’intervista concessa a Lamberto Sposini il 23 giugno 1992, meno di un mese prima che lo ammazzassero, alla domanda se dopo la strage di Capaci lui si sentisse un sopravvissuto, Borsellino rispose con una frase del poliziotto Ninni Cassarà, anche lui ucciso dalla mafia: "Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano". Poi aggiunse: "Io credo profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia e che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuare a farlo senza lasciarci condizionare dalla sensazione, o financo dalla certezza, che tutto questo può costarci caro".

Certezza, appunto. Altro che imprevedibilità. E allora, oggi, dopo trent’anni, se mi domando cosa potesse fare lo Stato, e cosa può fare ancora oggi, per proteggere questi uomini e queste donne, la mia risposta è: quantomeno non lasciarli soli. Non permettere che gli si scavi un fossato intorno. Far sì che quei maledetti boati, se proprio devono esserci, se proprio devono arrivare, siano davvero imprevedibili. Che non siano largamente annunciati. Che non portino con sé, oltre alla morte e alla distruzione, anche la vergogna di un grido d’aiuto inascoltato. Perlomeno questo.

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