Una manifestazione contro le mafie (dal sito di Libera)
Una manifestazione contro le mafie (dal sito di Libera)

Stragi di mafia. Se qualcosa è cambiato è merito della coscienza civile

Cosa nostra ordinò le stragi quando si accorse che i siciliani non volevano vivere sotto il giogo dei gruppi criminali. La tradizione di paura e sudditanza era stata rotta, bisognava riaffermare la propria forza

Nino Fasullo

Nino FasulloPrete, direttore della rivista "Segno"

17 maggio 2022

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"Abbiamo poco tempo per sfruttare le conoscenze acquisite, poco tempo per riprendere il lavoro di gruppo e riaffermare la nostra professionalità. Dopodiché tutto sarà dimenticato, di nuovo scenderà la nebbia. Perché le informazioni invecchiano e i metodi di lotta devono essere continuamente aggiornati" (Giovanni Falcone, Cose di cosa nostra, 1991).

Non ha previsto tutto, Giovanni Falcone, ma c'è andato vicino. Temeva il dopo: il ritorno della nebbia, la dimenticanza e che tutto venisse fermato. Come è avvenuto o quasi. I due attentati del 1992, uno per Falcone un altro per Paolo Borsellino, sono stati la risposta alla sentenza della Cassazione sul maxiprocesso della Procura di Palermo. La volontà mafiosa di fermare l’antimafia. Ci sono riusciti? Forse non si è riflettuto abbastanza su Capaci e via D’Amelio. Trenta anniversari non sono stati sufficienti per capire e persuadere: distratti, chi sa, dal "pensiero suggestivo" della mafia estinta e non più un problema per lo Stato. Bisogna spingere la riflessione più a fondo su quanto è accaduto, non solo a Palermo ma in Sicilia, negli ultimi cinquant’anni. E cogliere il senso dei mutamenti intervenuti nei comportamenti della gente quando – di sera, dopo un delitto di sangue – si chiudeva in casa, spegneva il lume e andava a dormire. Ora non più. Dagli anni ’80, non solo la gioventù esce di casa tranquillamente con gli amici in qualsiasi ora. Oggi vanno inventate nuove occasioni di riflessione che aiutino a comprendere il senso di ciò che è avvenuto già prima del ’92: l’anno cruciale dei due attentati in cui sono periti i giudici più noti e rappresentativi del pool della Procura. Gli ultimi. Da allora Cosa nostra tace. Un segnale da decrittare. Per cui resta il dovere di discutere di democrazia, di giustizia, di libertà e responsabilità. E della illiceità morale di convivere “pacificamente” con la mafia. Problema intonso tutto da dipanare.

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Una nuova coscienza

La "tensione antimafiosa" della cultura, della politica, della gioventù, delle città è durata per molti anni: almeno dal 1979 al 1995, e oltre. La storia dell’isola non aveva mai visto manifestazioni antimafia prima degli anni ’80. La parola e la coscienza sono state le prime, le vere responsabili del poco o molto che è avvenuto in Sicilia sul problema mafioso

Perché dunque i due attentati del ’92, esorbitanti e spaventosi? Che cosa ha convinto i mafiosi a dispiegare tanta forza? E chi, dopo, ha ordinato il silenzio? È difficile pensare che possa essere un fatto spontaneo. Qualcosa ha potuto mettere, diciamo, “paura” alla mafia? Di certo i due massacri non sono stati due delitti “normali”. I due attentati nascondevano una debolezza, sono sembrati la dichiarazione di una defaillance. Come la disperazione di uno che urla: "Nessuno si illuda! Siamo vivi e forti. Nulla, a Palermo e in Sicilia, si fa o non si fa senza di noi. Come da sempre". Affermazioni di principio già note. Ma perché ribadirle con tanto fracasso? Hanno visto nelle piazze che qualcosa era cambiato? Sì. Era mutata la coscienza.

Molti siciliani si sono resi conto di non potere più convivere con Cosa nostra in silenzio, senza reagire. Hanno compreso il monito: "Fatti non foste a viver come bruti" sotto il giogo di una banda di criminali. Per questo negli anni ’80 i giovani delle scuole hanno rotto le righe e sono scesi sulle strade a manifestare la propria condanna di un’organizzazione che condiziona il loro futuro e inquina la vita democratica non solo dell’isola. È stata la rottura di una tradizione di paura e di sudditanza contrabbandata per prudenza. Scompariva l’incultura della indifferenza che delle guerre di mafia diceva: "Si ammazzano tra loro". Come fosse un guadagno. Una cinica pulizia etica. E nessuno insegnava il contrario. Qualcuno, addirittura, tacciava le manifestazioni antimafia come "operette di strada". Mentre erano la foresta di Macbeth che abbatteva il potere criminale di Cosa nostra. Erano una cosa seria. Vi prendeva parte, non a caso, anche don Pino Puglisi, il parroco che organizzava manifestazioni antimafia parrocchiali. Altri preti (pochi) erano confusi nel movimento. E c’era pure ovviamente la più ampia chiesa di laici e di credenti e taluni appartenenti ad associazioni ecclesiali. Vuol dire che il movimento era plurale. E che in esso i cattolici non si distinguevano affatto dai non cattolici. E ciò che accadeva a Palermo avveniva anche a Catania, Messina, Agrigento, Caltanissetta e Trapani, per fare il nome delle città più grandi.

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Un’intuizione intelligente

Non si può, inoltre, tacere o sottovalutare il ruolo svolto dalla magistratura nel risveglio della coscienza morale e civile della gente contro la criminalità mafiosa. La domanda etica, culturale e politica di liberazione dalla mafia si incontrava con il lavoro dei magistrati che, grazie a leggi nuove quale il 416-bis, ha saputo dare alla città, all’isola, quanto non aveva dato in passato. Il maxiprocesso – con la sentenza della Cassazione del 31 gennaio 1992 – è stato un’intelligente invenzione dell’Ufficio istruzione di Palermo. Si può ipotizzare un rapporto di causa-effetto tra movimento antimafia, di giovani, di studenti, professori, giornalisti, parroci (pochi), partiti, sindacati, gente del popolo etc., e risposta mafiosa con i due attentati? Forse sì. Difficile provarlo. Ma ciò che è avvenuto a Palermo e nel resto dell’isola nei confronti della mafia difficilmente potrà essere ignorato dalla storiografia. La "tensione antimafiosa" della cultura, della politica, della gioventù, delle città è durata per molti anni: almeno dal 1979 al 1995, e oltre. La storia dell’isola non aveva mai visto manifestazioni antimafia prima degli anni ’80. La parola e la coscienza sono state le prime, le vere responsabili del poco o molto che è avvenuto in Sicilia sul problema mafioso. E poi? Falcone e Borsellino temevano il poi. La mafia li ha soppressi presto. Resta il segno indelebile del loro servizio alla libertà. La risposta adesso spetta ai non mafiosi.

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