20 giugno 2022
Hanno continuato a lavorare, a fare affari, a radicarsi e a infiltrarsi in Emilia-Romagna anche dopo Aemilia, la maxi operazione contro la ‘ndrangheta emiliana del 28 gennaio 2015. Poi sono finiti anche loro a processo, in uno dei tanti filoni processuali nati negli ultimi sette anni. Il procedimento si chiama Grimilde, originato da un'inchiesta della Polizia di stato e della Direzione distrettuale antimafia di Bologna che il 25 giugno 2019 ha portato a ulteriori arresti. Giovedì 16 giugno è arrivata un'ulteriore convalida di quanto è emerso dalle indagini, con la sentenza della corte d’appello di Bologna sui quaranta imputati giudicati con rito abbreviato.
L’accusa ha retto, i giudici d’appello hanno confermato tutte le condanne per associazione mafiosa, ma hanno ridotto, in alcuni casi anche in modo significativo, le pene: per Salvatore Grande Aracri, figlio del boss Francesco, la condanna passa da venti anni a quattordici anni e quattro mesi. Confermata la condanna per associazione mafiosa per l’ex presidente del consiglio comunale di Piacenza Giuseppe Caruso (Fratelli d'Italia), ma la sua pena passa da venti a dodici anni; per il fratello Albino, invece, si riduce a sei anni rispetto ai dodici del primo grado. Per Luigi Muto, Nicolino Sarcone, Alfonso Diletto, ai vertici della ‘ndrangheta emiliana e già condannati in Aemilia, la condanna si riduce a due anni e otto mesi di reclusione.
Nonostante la pena esigua, restano imputati di primo piano, il cui coinvolgimento dimostra il radicamento della 'ndrangheta su più livelli – economico, politico, sociale –, un’infiltrazione che supera anche i confini regionali e nazionali e la capacità di modulare le proprie azioni, usando a volte la violenza come mezzo per ottenere maggiori guadagni con lo sfruttamento lavorativo e le minacce, altre volte sistemi più raffinati, come gli investimenti, la creazione di società di comodo, le truffe carosello e le frodi per ottenere i finanziamenti europei.
Il processo Grimilde rivela come le mafie sfruttino i fondi Ue
Comune nella provincia di Reggio Emilia, poco più di 5mila abitanti e due statue al centro della piazza principale che caratterizzano la città, quelle di Peppone e Don Camillo, Brescello è noto ormai non più soltanto per i film ispirati ai racconti di Giovannino Guareschi: al momento è l’unico comune sciolto per infiltrazioni mafiose in Emilia-Romagna. Proprio facendo riferimento alla relazione di scioglimento del 2016, i giudici di Grimilde scrivono nelle motivazioni della sentenza di primo grado che nella città “vi sono tanti esempi che consentono di comprendere come il grado di violazione dell’ordine pubblico in questi territori sia elevato, in modo drammaticamente inconcepibile”. Non siamo nelle storie di Guareschi e neanche, scrivono sempre i giudici, “nella fantasia di un qualche autore di fantascienza ucronica e distopica che raffigura la concreta vita dell’Italia asservita ad un malaffare che arriva anche alle minutissime cose della vita di tutti i giorni”. Siamo in un paese diventato "epicentro" della 'ndrangheta emiliana, oggetto di un procedimento penale. Qua vivono il fratello del boss Nicolino, Francesco Grande Aracri – giudicato con rito ordinario – e i figli, tra cui Salvatore e Paolo, che hanno agito, secondo quanto emerso, con lo scopo di creare un'egemonia criminale che si manifesta anche sul piano fisico e geografico: prima dello scioglimento, il comune ha permesso una variante edilizia per la costruzione di un nuovo quartiere chiamato “Cutrello”, dall’unione di “Cutro” – città d’origine dei Grande Aracri – e Brescello. All’interno dell’amministrazione comunale, come dimostrato dall’atto di scioglimento, c’era “un’oggettiva e complessiva situazione di assoggettamento alla criminalità organizzata, che ha radici nel tempo e addebitabile a intrecci politici e sociali che non hanno mai fatto registrare quella necessaria presa di distanza dal pericolo mafioso”.
Comuni sciolti per mafia: numeri, motivazioni e conseguenze
“La preoccupazione principale del sodalizio è focalizzata sull’occultamento delle attività imprenditoriali e/o commerciali riferibile ai membri del sodalizio mediante una rete sempre disponibili di fittizi imprenditori”. Negli atti di Grimilde viene messa nero su bianco la disponibilità di professionisti a lavorare con la ‘ndrangheta emiliana per commettere alcuni reati economici come false fatturazioni, truffe o intestazioni fittizie. Erano reati già contestati in altri vecchi procedimenti come Grande Drago ed Edilpiovra, arrivati nei primi anni Duemila e quindi prima di Aemilia, che vedevano tra gli imputati (poi condannati) alcuni dei personaggi tornati alla sbarra anni dopo nei processi di mafia. Ora, però, vengono individuati un sistema e un’associazione mafiosa autonoma che, per arricchirsi, commette reati economici senza creare allarme sociale. C’è un soprannome che spiega bene questo aspetto: U calamaru, come veniva chiamato Salvatore Grande Aracri per la sua indole tentacolare negli affari. Così, l'operazione Grimilde ha fatto scoprire estorsioni per controllare aziende del territorio, ma anche affari nel mondo della notte, con la gestione occulta di note discoteche reggiane, come Italghisa e Los Angeles. E ancora, decine di intestazioni fittizie, caporalato e guadagni ai danni di lavoratori, usura e truffe che superano i confini nazionali.
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“Io ho mille amicizie da tutte le parti: bancari, oleifici, industriali, tutto quello che vuoi. Quindi io so dove bussare, quindi se tu mi tieni esterno ti dà vantaggio, se tu mi immischi, dopo che mi hai immischiato e mi hai bruciato, è finita, perché la gente ti chiude le porte”Giuseppe Caruso - Politico e dipendente dell'Agenzia delle dogane
Giuseppe Caruso è uno dei personaggi chiave del processo Grimilde: ex presidente del consiglio comunale di Piacenza in quota Fratelli d'Italia, condannato perché nel suo ruolo di dipendente dell’Agenzia delle dogane era, secondo i giudici, il punto di contatto tra la cosca e il mondo imprenditoriale, finanziario e politico della regione: “Io ho mille amicizie da tutte le parti: bancari, oleifici, industriali, tutto quello che vuoi. Quindi io so dove bussare, quindi se tu mi tieni esterno ti dà vantaggio, se tu mi immischi, dopo che mi hai immischiato e mi hai bruciato, è finita, perché la gente ti chiude le porte”, spiega lui stesso, in una delle tante conversazioni intercettate.
Ci sarebbe lui, ad esempio, dietro una delle vicende che emerge dal processo e che racconta le modalità utilizzate dalla ‘ndrangheta: il caso della Riso Roncaia, in cui la cosca si inserisce in una fase di grave crisi economica e finanziaria dell’azienda mantovana e la “salva”, parlando con le banche e riuscendo a ottenere, tramite truffe, fondi europei dal valore di milioni di euro. Caruso è la persona che, per il gruppo mafioso, può risolvere tutti i problemi: mettere in contatto personaggi di primo livello, proteggere l'azienda e guadagnarci. Un caso, questo, su cui però c’è una delle principali discrepanze tra la sentenza di primo grado e quella d’appello: due dei reati contestati, che riguardavano la truffa ai danni della Riso Roncaia e le minacce ai suoi proprietari, sono caduti nell’ultima sentenza, portando così ad assoluzioni o a riduzioni di pena, come nel caso di Caruso.
Riduzioni significative, che non riguardano però la condanna per associazione mafiosa: “Salvatore Grande Aracri ha presentato Giuseppe Caruso dicendo 'è uno dei nostri' e nel corso della cena Colosimo ha potuto constatare che Caruso parlava con un vero ‘ndranghetista, dicendo anche di essere uno dei referenti della ‘ndrangheta di Piacenza”. Un fatto – raccontato dagli inquirenti, in riferimento a un interrogatorio, e riportato nelle motivazioni della sentenza di primo grado – che spiega la caratura criminale del dipendente delle Agenzie delle dogane poi diventato rappresentante di primo piano della vita democratica di Piacenza.
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“Il cosiddetto Affare Oppido rappresenta uno degli esempi più evidenti dell'esistenza del sodalizio 'ndranghetistico emiliano, delle sue dinamiche interne, del suo funzionamento, della sua potenza criminale e della sua capacità di porre in essere operazioni illecite e di accaparramento di somme di provenienza delittuosa, anche grazie all'appoggio compiacente di operatori del settore finanziario”. È questa la prima descrizione che fanno i giudici di Aemilia sull’Affare Oppido, una “colossale operazione truffaldina” che ha permesso alla ‘ndrangheta di guadagnare oltre due milioni di euro.
L’affare altro non è che una maxi truffa ai danni dello Stato in cui era coinvolta tutta la cosca e che, se non fosse raccontata nelle carte giudiziarie di uno dei più importanti processi contro la ‘ndrangheta in tutta Italia, potrebbe benissimo far parte di una fiction. La truffa nasce da una falsa sentenza del Tribunale di Napoli che attesta il diritto di risarcimento per l'esproprio di un terreno, poi risultato essere inesistente, di proprietà dell’azienda di due uomini della cosca, Domenico e Gaetano Oppido (giudicati nel rito ordinario di Grimilde): sulla base di questa sentenza, nel 2010 il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti paga mediante bonifico 2,248.120,55 euro sul conto corrente della “Oppido Gaetano & Co s.r.l.”.
In mezzo, ci sono rapporti e meccanismi che emergono nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Antonio Valerio e Salvatore Muto durante le udienze di Aemilia e che vengono chiariti soltanto in seguito, nel processo Grimilde. La falsa sentenza supera tutte le verifiche grazie a un compiacente funzionario del ministero, condannato in abbreviato a 4 anni di reclusione: si chiama Renato De Simone ed è da lui che, secondo quanto emerge dal processo, parte l’idea della maxi truffa ai danni dello stesso ministero per cui lavora. I soldi arrivano poi senza problemi nelle casse della società grazie al nipote di De Simone, Giuseppe Fontana, allora dipendente della Banca di Cesena, filiale di Reggio Emilia, condannato con l’ultima sentenza a 3 anni e 4 mesi di carcere. Così, grazie alla collaborazione tra ‘ndranghetisti e professionisti esterni, la truffa viene portata a termine.
Dei 14 euro ricevuti dall’azienda per ogni ora lavorata, agli operai arrivavano tra gli 8 e i 10 euro, perché il resto finisce per ingrassare le casse degli intermediari di manodopera
Ci sono poi i ricatti a chi non può permettersi di rifiutare occasioni di lavoro, anche se in condizioni di sfruttamento. È il caso degli operai che nel 2017 vengono spediti a Bruxelles, tramite Salvatore Grande Aracri e il padre Francesco, fratello maggiore del boss Nicolino (imputato nel rito ordinario ancora in corso). Secondo inquirenti e giudici, da Brescello padre e figlio hanno arruolato operai per conto di una ditta edile albanese in Belgio alla ricerca di manovalanza italiana a buon mercato. Persone “in stato di bisogno dovuto ad una cronica difficoltà di trovare lavoro” – hanno scritto i magistrati – disposte ad allontanarsi a centinaia di chilometri da casa pur di avere un lavoro.
Con la ditta i due ‘ndranghetisti trattano i prezzi: dei 14 euro ricevuti dall’azienda per ogni ora lavorata, agli operai arrivavano tra gli 8 e i 10 euro, perché il resto finisce per ingrassare le casse degli intermediari di manodopera. Dieci ore di lavoro al giorno, compreso il sabato, festivi non pagati, così come gli straordinari. Niente indennità per la trasferta all’estero e pagamenti in ritardo (quando avvenivano), tanto che i lavoratori – muratori e carpentieri – dovevano chiedere i soldi per poter mangiare. E chi, una volta rientrato in Italia, chiedeva di avere quello che gli spettava, veniva picchiato. Così, facendo le creste sulle paghe dei lavoratori, ai due intermediari 'ndranghetisti arrivavano quasi ottanta euro (come affermano in una conversazione intercettata) puliti per ogni ora lavorata da altri in condizioni di sfruttamento.
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