Aggiornato il giorno 3 marzo 2020
Dicono i magistrati che le cosche hanno cambiato strategia: si infiltrano nei luoghi di potere, condizionano il voto per ottenere in cambio appalti e posti di lavoro. Emblema di questa trasformazione sono i comuni sciolti per mafia. I dati forniti da Avviso pubblico, associazione di amministratori pubblici nata per promuovere la cultura della legalità, forniscono un panorama inquietante: dal 1991 al gennaio 2020 si contano 257 enti interessati. Un fenomeno che ormai da anni non riguarda più solo l’Italia del Sud, dove tuttavia continua a concentrarsi la maggioranza delle amministrazioni commissariate, ma anche il Settentrione tanto da spingersi persino “nel profondo Nord” come dimostra il caso di Saint-Pierre: comune alle porte di Aosta, commissariato per infiltrazioni mafiose.
Comuni sciolti per mafia, dalle difficoltà alla "terza via"
Lo scioglimento delle amministrazioni locali per fenomeni di infiltrazione e condizionamento di tipo mafioso è stato introdotto nel nostro ordinamento nel 1991 ed è disciplinato da Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali o Tuel (dall’articolo 143 al 146 del decreto legislativo numero 267 del 2000), modificato dal pacchetto sicurezza del 2009. È una misura preventiva, da adottare come extrema ratio per salvaguardare la funzionalità dell’amministrazione pubblica, con l’obiettivo di interrompere un rapporto di connivenza e soggezione nei confronti dei clan mafiosi in grado di condizionarne le scelte.
Perché un comune venga sciolto per mafia non è necessario che gli amministratori abbiano commesso reati, basta che emerga una loro possibile soggezione alla criminalità organizzata. Un comune può essere sciolto quando ci sono “concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare degli amministratori” o c’è un condizionamento “della volontà degli organi elettivi ed amministrativi”.
La commissione d’indagine che ha il compito di accedere agli atti del comune per accertare se esistano le condizioni per lo scioglimento dell’amministrazione ha molta discrezionalità nel valutare il contesto ambientale anche perché i singoli episodi “potrebbero anche non essere particolarmente significativi”, come stabilito dal Consiglio di Stato nel 2012. In alcuni casi sono stati determinanti i rapporti di parentela, amicizia e affari dei vertici politici o dei dipendenti delle amministrazioni. In altri, le minacce dei clan agli amministratori. In altri ancora, il voto di scambio politico-mafioso. Esemplare a questo proposito è il caso di Borgetto, in provincia di Palermo, dove era stato stipulato “un accordo politico mafioso in base al quale i candidati sostenuti dalla consorteria mafiosa una volta eletti avrebbero dovuto garantire come controprestazione l’affidamento di alcuni servizi”, si legge nella relazione del ministro dell’Interno.
Inoltre non è necessario che gli amministratori locali siano consapevoli dei benefici ai malavitosi: basta dimostrare che non abbiano contrastato l’aggiudicazione di appalti o altri finanziamenti alle aziende legate alla criminalità organizzata. È successo così, ad esempio, a Brescello, primo comune dell’Emilia Romagna sciolto per mafia nel 2016. Tra i motivi del commissariamento ci sono le varianti al piano regolatore chieste da ditte a cui non era stata domandata l’informativa antimafia (un documento che certifica l’assenza di legami sospetti), l’assunzione di personaggi vicini alle cosche, l’affidamento di appalti a ditte poi raggiunte da interdittive antimafia e anche “le dichiarazioni e il comportamento del sindaco (Marcello Coffrini, ndr) in occasione di una intervista alla tv web”. Davanti alla telecamera dell’associazione Cortocircuito, il primo cittadino aveva definito una “persona educata”, “sempre vissuta a basso livello” il boss Francesco Grande Aracri, dimostrando – come si legge nel provvedimento – “scarsa attenzione” e “insensibilità” verso il problema della “criminalità organizzata largamente diffusa nel contesto locale”.
In genere, dopo indagini antimafia che rivelano legami tra presunti mafiosi e amministratori, il prefetto della provincia in cui si trova il comune in questione nomina una commissione d’indagine composta da tre funzionari dell’amministrazione pubblica. La commissione ha il compito di studiare gli atti per accertare se ci siano i requisiti per la richiesta di scioglimento dell’amministrazione, lavora tre mesi, prorogabili di altri tre, al termine dei quali deve presentare le proprie conclusioni. Entro 45 giorni dalla consegna delle conclusioni il prefetto – dopo un confronto col comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica a cui partecipa anche il procuratore della Repubblica – invia al ministro dell'Interno una relazione in cui annota gli elementi che possono portare allo scioglimento del Comune. Come appalti, contratti e servizi affidati a persone legate alla criminalità organizzata o la cui concessione è stata condizionata dai mafiosi. L’atto finale spetta al Presidente della Repubblica che tramite decreto dispone lo scioglimento del comune su proposta del ministro dell’Interno.
Stando ai dati raccolti da Avviso Pubblico, dal 1991 al 17 gennaio 2020 sono stati emanati nel complesso 546 decreti dei quali 205 di proroga. Su 341 decreti di scioglimento, 23 sono stati annullati dai giudici amministrativi. Tenendo conto che molte amministrazioni sono state oggetto di più provvedimenti, in totale si contano 288 enti locali coinvolti nella procedura di verifica per infiltrazioni della criminalità organizzata, di cui 257 effettivamente sciolti (compresi un capoluogo di provincia e sei aziende sanitarie e ospedaliere). La maggior parte delle amministrazioni si trova nell’Italia del Sud, ma non mancano i casi al Nord. Come Bardonecchia, comune in provincia di Torino sciolto nel 1995, o Sedriano, paesone di 11mila anime in provincia di Milano, nonché il primo comune lombardo sciolto per mafia nel 2013.
Il 2019 può essere considerato un annus horribilis per i comuni sciolti per mafia. Sono stati 21 gli enti locali commissariati, a cui vanno aggiunti i 26 decreti di proroga di precedenti scioglimenti. Si è così raggiunta la cifra più rilevante dal 1991.
A guidare la classifica è la Calabria (8), seguita da Sicilia (7), Puglia (3), Campania (2), Basilicata (1). Ma il dato più preoccupante riguarda le amministrazioni recidive: sono tante quelle al secondo o al terzo provvedimento, dimostrando che c’è “molto lavoro da fare per far sì che al seguito del provvedimento di scioglimento si costruisca un percorso di legalità”, spiega il presidente di Avviso Pubblico, Roberto Montà. Nel 2019 se ne contano otto, inclusa un’azienda sanitaria: Careri (Reggio Calabria, sciolto una prima volta nel 2012); Arzano (Napoli, al terzo scioglimento dopo quelli del 2008 e del 2015); Sinopoli (Reggio Calabria, già sciolto nel 1997); Torretta (Palermo, sottoposto a scioglimento nel 2005, archiviato nel 2014); Misterbianco (Catania, tra i primi enti sciolti nel 1991); Cerignola (Foggia); Orta di Atella (Caserta, al secondo scioglimento, dopo quello del 2008); Africo (Reggio Calabria, giunto al terzo scioglimento, dopo quelli del 2003, successivamente annullato, e del 2014); e l’azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria (sciolta anche nel 2008).
Lo scioglimento per mafia può durare da dodici a diciotto mesi, con la possibilità di proroga fino a ventiquattro in casi eccezionali. Con questa decisione perdono la loro carica i consiglieri comunali, il sindaco e gli assessori, ma anche il revisore dei conti e i consulenti che non siano rinnovati dalla commissione straordinaria nominata per la gestione provvisoria del comune. Questa commissione è composta da tre membri scelti tra funzionari dello Stato, in servizio o a riposo, e tra magistrati della giurisdizione ordinaria o amministrativa in pensione, e resta in carica fino allo svolgimento del primo turno elettorale utile.
Lo scioglimento dei comuni non ha conseguenze solo a livello politico, ma influisce sulla governance dei comuni. Un’analisi del 2016 firmata dall’economista Sergio Galletta sulle spese dei comuni commissariati mostra un effetto negativo sugli investimenti, ma non sulle spese correnti. In particolare, durante il primo anno di commissariamento gli investimenti si riducono di circa il 45 percento, mentre considerando un periodo di tre anni si ha una riduzione media del 15 percento annuo.
@rositarijtano
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