22 luglio 2024
Ci sono modi diversi di trattare i giovani autori di reato, diversi dalla spinta verso le carceri minorili che arriva dal decreto Caivano, che sta aumentando il numero di giovanissimi reclusi. Lo dimostrano alcune storie che, dietro garanzia di anonimato, lavialibera ha raccolto. Storie come quella di Roberta, che ha condiviso con noi la sua esperienza di riparazione: ha 20 anni, convive con il suo compagno e lavora come receptionist, ma ha alle spalle un passato tormentato.
“Quando avevo 16 anni ho rubato alla mia famiglia i soldi e l’oro che tenevano in casa convinta dal mio fidanzato di allora – racconta a lavialibera – sono anche arrivata a ferirlo con un’arma quando mi sono accorta che l’unica cosa che voleva da me erano i soldi”. Lui infatti l’aveva convinta a sottrarre i beni alla sua famiglia per sostenerlo economicamente. Complici un sentimento di assoggettamento totale al fidanzato e una famiglia dalla quale voleva scappare perché era previsto per lei un matrimonio combinato, Roberta è stata denunciata per furto aggravato. “Inizialmente nessuno pensava fossi stata io, poi dopo il secondo furto lui è stato denunciato, ha fatto il mio nome e quindi ci sono entrata anche io”. Comincia così un lungo percorso di fronte alla giustizia minorile. Il giudice ordina per lei la sospensione del processo a patto che superi la “messa alla prova” di un anno: in questi casi il minore viene affidato ai servizi sociali per un percorso di responsabilizzazione e reinserimento sociale e, se l’esito è positivo, il reato viene "estinto", il processo si interrompe. Roberta è stata accompagnata nel percorso dalla Cooperativa Progetto 92 nella provincia di Trento. In questo modo ha sperimentato cosa vuol dire responsabilizzazione e riparazione. “Ho fatto un percorso che mi ha fatto capire quanto in realtà io sia fortunata”, dice oggi.
Anche Giulio, 18 anni, racconta il suo percorso. Accusato di lesioni aggravate per aver fatto da “palo” durante il pestaggio di un coetaneo nel 2023, ha affrontato un anno di messa alla prova al termine del quale viene ritenuto idoneo per partecipare a un percorso di giustizia riparativa sempre con la Cooperativa Progetto 92. Dopo un incontro con la vittima, grazie alla mediazione penale “che è servita più a lui per capire cosa fosse successo che a me”, dice Giulio, inizia a svolgere attività in una fattoria didattica dove scopre che per lui il contatto con la natura è fondamentale. Giulio e Roberta sono solo due degli oltre 400 minori finiti nel circuito penale e presi in carico negli ultimi tre anni dal progetto “Tra Zenit e Nadir: rotte educative in mare aperto”.
“Quando entrano in carcere non è quasi mai il primo reato, ma c’è stata prima una sorta di escalation. Se nessuno interviene in quelle fasi e poi commettono il fattaccio, vengono sbattuti dentro e basta”Riccardo Pavan - Referente Cnca
“L’inserimento in un contesto carcerario per i minori è l’ultima spiaggia. Noi agganciamo i ragazzi già alla prima udienza proprio per evitare la carcerazione; quindi, bisogna cercare di tenerli fuori il più possibile – dice Riccardo Pavan, referente coordinatore dell’area penale minorile del Coordinamento nazionale Comunità di accoglienza (Cnca), nonché uno dei fondatori del progetto rivolto ai giovani che commettono reati tra i 16 e 21 anni che vengono inseriti in un percorso di riparazione –. È su questo che scommette il progetto ‘Tra Zenit e Nadir’, su modelli che non si caratterizzano per la mera punizione, ma che scommettono sull'idea dell'umanizzazione dell'altro”.
Una scommessa non da poco considerando che il decreto “Caivano” ha invertito completamente la rotta, perseguendo una politica del “punire per educare”. L’effetto è stato il sensibile aumento dei detenuti minorenni. Agli inizi del 2024, secondo i dati dell’ultimo rapporto di Antigone, associazione per i diritti delle persone detenute, il numero di minori in carcere è pari a 500, una cifra che non si raggiungeva da oltre 10 anni. “Quando entrano in carcere non è quasi mai il primo reato, ma il culmine di un'escalation – prosegue Pavan –. Se nessuno interviene in quelle fasi e poi commettono il fattaccio, vengono sbattuti dentro e basta”. Una conferma parziale proviene dai dati pubblicati da Transcrime, centro di ricerca interuniversitario su criminalità e innovazione dell’Università Cattolica di Milano: sul territorio di Milano il 40 per cento dei ragazzi presi in carico dall’Ufficio di servizio sociale per minorenni (Ussm) è stato coinvolto in più di un procedimento penale.
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“L’idea è quella di contrastare la carriera deviante dei giovani”, spiega Pavan a lavialibera. La costruzione di percorsi alternativi al carcere, la responsabilizzazione dell’autore del reato, il riconoscimento delle vittime e la ricostruzione dei legami sociali, sono i tasselli fondamentali del progetto “Tra Zenit e Nadir” come di altri progetti analoghi, presenti in tutt'Italia. Nato nel 2021, frutto della collaborazione tra la Fondazione Don Calabria e del Cnca e finanziato dall’impresa sociale Con i Bambini, coinvolge oggi oltre 60 partner pubblici in Veneto, Lombardia e Trentino-Alto Adige. Non è un’alternativa alla carcerazione, poiché i giovani possono essere entrare a far parte del percorso lungo tutte le fasi del procedimento penale. Come spiega Alberto dal Pozzo, coordinatore della cooperativa Arimo di Milano (tra i partner del progetto): “Io vengo contattato dal servizio sociale per minori che sottopone la storia del ragazzo o della ragazza. Poi insieme a tutti i partner capiamo se possiamo offrire qualcosa di buono”. Inizia così il percorso riparativo, “nell’ottica di riavvicinare il ragazzo o la ragazza alla società, di lavorare immediatamente con loro, di non rinchiuderli, ma dare loro la possibilità di avere una seconda chance”.
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“A parte essermi resa conto di aver sbagliato, ho compreso quante persone sfortunate e bisognose ci siano. Nonostante tutto, io sono fortunata e in quei mesi ho contribuito a fare stare meglio quelle persone”Roberta
Importantissimo è il lavoro “sartoriale” – come viene definito da chi opera nel settore –, ovvero l’idea di cucire su misura progetti che rispondano alle esigenze e ai bisogni dei ragazzi presi in carico. “Noi vogliamo che i ragazzi rielaborino la propria esperienza e facciano percorsi mirati per sviluppare passioni e competenze”, rimarca Pavan. La storia di Giulio è andata proprio in questa direzione. Alla conclusione del suo percorso ha scritto una lettera destinandola proprio “alla messa alla prova” nella quale scrive: “Ho conosciuto un po’ me stesso, la connessione con la natura per esempio è qualcosa che servirebbe a ogni persona per conoscersi meglio, ti dà un senso di pace indescrivibile”.
Dal canto suo, rispetto al primo contatto con la sua educatrice, Roberta ha percorso molta strada: “Roberta ha fatto un percorso incredibile, oggi convive, ha un lavoro e ha sempre detto che grazie all’esperienza svolta con noi si è sentita considerata per la prima volta”, spiega Cristina Stroppa, referente sul progetto "Tra Zenit e Nadir" per la Cooperativa Progetto 92. Una volta iniziata l’attività di volontariato con persone con difficoltà sociali o personali, infatti, ha superato lo scetticismo iniziale provando gratitudine nell’aver ricevuto questa opportunità. “A parte essermi resa conto di aver sbagliato, ho compreso quante persone sfortunate e bisognose ci siano – racconta –. Nonostante tutto, io sono fortunata e in quei mesi ho contribuito a fare stare meglio quelle persone”.
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Queste attività sono fondamentali nell’ottica di ricucire la relazione tra chi compie il reato e la comunità. Anche Felipe ha una storia simile. Dopo aver commesso una rapina a mano armata e aver passato un periodo al penitenziario minorile “Beccaria” di Milano, è arrivato al centro diurno diffuso della cooperativa Arimo, nato proprio come modello alternativo alla comunità grazie al progetto “Tra Zenit e Nadir”. All’inizio non comprendeva la gravità dell’atto compiuto, “giustificato” dalla volontà di aiutare economicamente la madre e la sorella, affette da patologie psichiatriche. “A un certo punto durante le attività, entrando in relazione con le altre persone, ha cominciato a riflettere – dicono i suoi educatori –. Le persone con le quali lavorava erano in condizioni altrettanti gravi. Questo lo ha portato a ripensare al suo reato e a mettersi anche nei panni degli altri”.
Il centro diurno diffuso di Arimo ha visto passare anche Alice. Processata per un’aggressione a un’anziana signora, ha svolto un'attività che le consentisse di riparare in modo diretto al danno arrecato: volontariato in un servizio per anziani con sindrome di Alzheimer.
“Ricordo un incontro che ho mediato tra una ragazza che aveva subito una rapina di notte e il suo aggressore. Lei voleva fargli capire quanta paura le avesse lasciato addosso. Lui le ha spiegato che dopo tre anni di percorso era una persona diversa, era profondamente imbarazzato di averle causato quel dolore”Marco Vincenzi - Mediatore della Cooperativa sociale Insieme
Nel 2022 nel modello di presa in carico dei ragazzi autori di reato entra una nuova parola: vittima. “Bisogna occuparsi anche della vittima”, sono le parole di Sabino Montaruli, responsabile del servizio sociale della Zona Nord del Comune di Brescia, riportate sulla pagina web del progetto. Seppur con ancora diverse criticità – lentezza dei servizi sociali territoriali e il rischio di una visione ancora incentrata solo su chi compie il reato – l’incontro tra la vittima e l’autore del reato attraverso la mediazione penale è uno dei cardini sui quali poggia il concetto di giustizia riparativa.
“Le vittime non vogliono sentirsi chiedere scusa, non è che basta esprimere dispiacere e la storia si chiude lì – dice Marco Vincenzi, mediatore penale di Cooperativa sociale Insieme –, ma vogliono capire perché la persona ha compiuto il gesto, dalla rapina al furto all’aggressione”. Giulio, all’inizio del suo percorso di riparazione, ha incontrato la sua vittima: “Voleva capire perché e quale ruolo avessi avuto nella rissa”, dice a lavialibera.
Quando qualcuno subisce un reato, le conseguenze non sono solo quelle direttamente visibili, come la sparizione del portafoglio o il dolore fisico di aver subito un’aggressione. Alla vittima rimane un senso di impotenza, di paura e incomprensione. “Ricordo un incontro che ho mediato tra una ragazza che aveva subito una rapina di notte e il suo aggressore – dice Vincenzi –. Lei voleva fargli capire quanta paura le avesse lasciato addosso. Lui le ha spiegato che dopo tre anni di percorso era una persona diversa, era profondamente imbarazzato di averle causato quel dolore”.
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