1 luglio 2023
“La mafia è cambiata, ma tra i giovani sopravvive quella visione distorta che dipinge i mafiosi come uomini coraggiosi e d’onore, Robin Hood che lottano contro lo Stato, dalla parte della gente. È questa narrazione che vogliamo stravolgere e Amunì è il nostro strumento per farlo”. Salvatore Inguì è il direttore, a Palermo, dell’Ufficio servizio sociale per minorenni del ministero della Giustizia, nonché una delle molte anime di Amunì– che in dialetto siciliano significa “andiamo” – un progetto di Libera rivolto ai giovani tra i 16 e 22 anni sottoposti a procedimento penale e impegnati in un percorso di riparazione, alternativo alla detenzione.
Amunì è nato quasi per caso da un’esperienza locale in Sicilia, quindi Libera ha avuto l’intuizione di trasformarlo in un progetto nazionale, con una struttura organizzativa e metodologica trasferibile sui differenti contesti d’azione. Il progetto integra le competenze del servizio pubblico con quelle del privato sociale, ma l’elemento essenziale è il rapporto osmotico con il territorio. In ogni esperienza locale, infatti, è forte l'intreccio e la sinergia con altre esperienze e con le comunità di origine.
I ragazzi coinvolti in molti casi sono al primo reato. “I reati non sono commessi da giovani mafiosi – precisa Inguì – anzi molti ragazzi con la criminalità organizzata non hanno mai avuto niente a che fare. Però tanti hanno una mentalità mafiosa ed è quella che cerchiamo di minare”.
"I ragazzi non sono soltanto affascinati dal denaro facile, semmai è una questione di rispetto. Sono alla ricerca di un’identità forte, di un gruppo che li protegga"Salvatore Inguì - Ideatore del progetto Amunì
Amunì è un’esortazione, un invito a cambiare. “A differenza di quanto si pensi – continua Inguì – i ragazzi non sono soltanto affascinati dal denaro facile, semmai è una questione di rispetto. Sono alla ricerca di un’identità forte, di un gruppo che li protegga e chi meglio della consorteria mafiosa può farlo? In fin dei conti la criminalità organizzata è un sistema meritocratico dove chi spara bene fa carriera. Cercano quello che la società, lo Stato, spesso non offrono”.
L’iter che porta ad Amunì comincia con l’affidamento ai servizi sociali di minori e giovani adulti (fino a 25 anni), che hanno commesso un reato quando ancora erano minorenni; iI giudice minorile può decidere eventuali misure alternative alla detenzione, ed è lì che interviene Amunì, come uno dei possibili percorsi di riparazione. Ciascuno dei ragazzi (sono quasi tutti maschi) è libero di scegliere se partecipare o meno a quel progetto, non è previsto alcun obbligo. Le attività dei gruppi sono tante e varie: incontri con i familiari delle vittime, momenti culturali, conoscenza dei beni confiscati, tornei sportivi, ecc. Trascorso questo periodo, in cui il giudizio è sospeso, il ragazzo torna in tribunale con l’assistente sociale e in base ai risultati ottenuti il giudice decide se renderlo libero o meno.
“Nel 2009 – ricorda Inguì – quando ero il referente della sede Ussm (Ufficio di servizio sociale per i minorenni, ndr) di Trapani, ho pensato di coinvolgere un gruppo di ragazzi e partire in nave da Palermo alla volta di Napoli per partecipare alla giornata del 21 marzo. Conoscevo Libera, ma non ci avevo mai avuto a che fare. Abbiamo incontrato Margherita Asta, che ha perso la mamma e i due fratellini gemelli nella strage di Pizzolungo (leggi la storia), ci ha raccontato la storia della sua famiglia. I ragazzi hanno ascoltato e alla fine si sono commossi, ricordo che molti l’hanno abbracciata”.
Quei giovani erano tutti sottoposti a procedimento penale, alcuni a piede libero, altri messi alla prova o affidati alle comunità. Come consuetudine, sul palco sono stati poi letti i nomi delle vittime di mafia e nell’elenco c’erano anche donne e bambini. “Non pensavano che i mafiosi uccidessero anche fimmini e picciriddi. Per la prima volta nella loro vita hanno capito qual è la vera natura della mafia”.
Libera e l'elenco delle vittime di mafie, una scelta complicata
È stata quella reazione dei ragazzi a spingere Inguì a contattare Libera. “Mi servivano dei contatti diretti con persone come Margherita Asta, è in quel momento che nasce davvero Amunì”.
“All’inizio – aggiunge Inguì – erano percorsi che partivano in autunno e si concludevano a marzo, con tre-quattro incontri, laboratori e l’immancabile viaggio del 21 marzo. Nell’edizione 2013, a Firenze, siamo partiti dalla Sicilia con una dozzina di ragazzi, che durante il loro intervento hanno impressionato il pubblico. La gente si chiedeva: “Com’è possibile che queste facce da delinquenti possano dire parole così delicate e belle. A quell’incontro erano presenti anche assistenti sociali e militanti di Libera e si è deciso di replicare Amunì in altri territori. Caterina Marsala è stata la prima ad aderire con un progetto in Liguria”.
Per anni ho incontrato i giovani rimanendo seduta dietro una scrivania e ascoltando quello che volevo sentirmi dire. Con Amunì viaggio con loro, frequentiamo gli stessi campi estivi, raccolgo elementi che mai avrei raccolto durante un incontro formale in ufficioCaterina Marsala - Assistente sociale all'Ussm di Genova
Caterina Marsala da 25 anni è assistente sociale all’Ussm di Genova e da oltre dieci anni referente del progetto che in LiIguria si chiama Anemmu. Ogni territorio, infatti, utilizza la parola del proprio dialetto per dire “andiamo”. E così, a Napoli c’è Jamme ja, a Torino Anduma, a La Spezia A’ndemo, a Milano Andemm e a Roma Daje.
“Il valore aggiunto di Amunì – spiega Marsala – è la presenza attiva dell’operatore della giustizia, assente negli altri progetti, che per i ragazzi rappresenta lo Stato. Per anni ho incontrato i giovani rimanendo seduta dietro una scrivania e ascoltando quello che volevo sentirmi dire. Con Amunì è diverso, viaggio con loro, frequentiamo gli stessi campi estivi, raccolgo elementi che mai avrei raccolto durante un incontro formale in ufficio. Solo in questo modo li conosco davvero”. Ma non per tutti è così. “Ci sono assistenti sociali che invece preferiscono mantenere le distanze. È importante che il nostro ruolo sia definito e riconosciuto, penso sia una questione di equilibrio”.
In questi dieci anni dei numerosi ragazzi transitati a Genova, La Spezia, Imperia e Chiavari (le tre città liguri dove il progetto è stato attivato) non si hanno più notizie. C’è chi preferisce dimenticare, altri invece rimangono e aiutano i volontari con i nuovi arrivati. “Ci sono ragazzi che si sono fermati anche 3-4 anni – conclude Marsala – e il loro ruolo di peer (persona "alla pari", che ha vissuto un'esperienza simile e può guidare altre in un percorso, ndr) si è rivelato fondamentale”.
Per Antonio D’Amore, responsabile Amunì in Campania, “i giovani spesso decidono di rimanere nel progetto dopo aver finito la misura perché sperimentano relazioni che spezzano la prigione della solitudine”.
Per i minori il carcere non è "Mare fuori"
"I giovani spesso decidono di rimanere nel progetto dopo aver finito la misura perché sperimentano relazioni che spezzano la prigione della solitudine”Antonio D'Amore - Responsabile Amunì in Campania
Il progetto poggia su un protocollo di partenariato con il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, che ne definisce linee e contenuti operativi. Assistenti sociali e volontari di Libera operano insieme, all’interno di gruppi che coinvolgono i ragazzi in una serie di attività, tra cui la partecipazione alla giornata della memoria e dell’impegno che ogni 21 marzo Libera organizza in una città italiana, per ricordare le vittime innocenti di mafia.
In occasione di questo importante appuntamento nazionale, il progetto organizza un campo di quattro giorni dedicato ai soli ragazzi Amunì provenienti dalle diverse regioni d'Italia. Un campo residenziale di impegno e formazione che vede i giovani e gli accompagnatori coinvolti nella conoscenza della città che li accoglie, nell'incontro di tante realtà territoriali che, a diverso titolo, combattono le disuguaglianze e i problemi esistenti.
Nel corso dell'anno, a completamento dei singoli percorsi locali, vengono proposte delle attività a carattere nazionale che vedono il viaggio e l'incontro come finalità principali, tra queste esperienze vale la pena ricordare:
Poi c’è il viaggio, l’elemento che forse più di altri caratterizza i percorsi. “Ci sono ragazzi che non sono mai usciti dal loro quartiere – dice Inguì –, penso ai giovani delle Zen che ancora dicono ‘andiamo a Palermo’. Questo denota un forte senso di appartenenza, ma anche un preoccupante isolamento”. I viaggi di Amunì possono essere brevi, qualcuno è più lungo, ma soprattutto sono “insieme ad altri”, per conoscere storie vicine e distanti.
“È un modo di catapultarli dentro situazioni reali, forti, concrete – dicono gli organizzatori –. Situazioni vive, cariche di sentimenti, di odori, di grida e silenzi di chi aveva vissuto la violenza delle mafie, non per sentito dire, ma sulla propria carne. Persone, luoghi e storie capaci di raccontare le altre facce delle mafie. Partire dai “credo” di questi ragazzi, accoglierli e analizzarli senza il pregiudizio di chi sa già dove sia la verità. Partire dal loro essere persone a prescindere dal reato commesso. Essergli a fianco e non davanti o dietro, metterci, noi insieme a loro, la faccia”.
In Sicilia l'Antimafia indaga le condizioni dei minori
Ogni gruppo, composto da una decine di persone, diviene lo spazio e il luogo dell’esperienza e lo strumento principale per la ricerca di nuove visioni di sé e del proprio ambiente. Insieme ai ragazzi vi sono gli operatori del dipartimento della giustizia e i volontari di Libera e nei momenti di incontro, tutti hanno il diritto di parlare ed esprimere le loro idee.
Il contributo dei volontari è fondamentale, perché in quanto giovani parlano la stessa lingua e utilizzano gli stessi codici dei giovani, riuscendo a entrare più facilmente in rapporto con loro.
Le azioni sono, soprattutto, le seguenti:
Si fondano su un’idea molto semplice: far conoscere ai ragazzi realtà nuove e altre, chiedendo loro di “stare dentro” le cose e le situazioni, senza contrapporre lo schema modelli buoni vs modelli cattivi.
Giovani gangster si fanno strada a Napoli
Intendono favorire l’incontro e l’esperienza dei giovani coinvolti nel progetto, con realtà di povertà esistenti nei contesti di riferimento. In particolare, sono previsti incontri di: conoscenza delle realtà di povertà e di bisogno territoriali; conoscenza di associazioni, enti, organizzazioni che si occupano del contrasto alla povertà e operano in azioni solidali; attività di volontariato in una o più associazioni incontrate, dove sperimentare la propria capacità di empatia e di solidarietà.
Oltre alla giornata del 21 marzo, a livello territoriale in funzione delle risorse dei singoli territori, i giovani del progetto partecipano ad attività culturali, ricreative e sportive in ambienti cittadini e naturalistici al fine di realizzare attività mirate allo sviluppo delle abilità pro-sociali, al rinforzo dell’autostima e delle capacità di lavorare in gruppo. Nei campi di volontariato e lavoro, oltre a migliaia di giovani studenti e lavoratori, partecipano circa 70-80 ragazzi dell’area penale esterna. Inoltre, il progetto Amunì propone annualmente una serie di attività a valenza nazionale per facilitare l’incontro e il confronto tra giovani di diverse città e tra i diversi operatori che li accompagnano.
“Ogni anno attiviamo almeno 12 gruppi, ciascuno composto da una media di 10 ragazzi. Sono 120 ragazzi all’anno coinvolti, numeri che non sono mai scesi”. Così Barbara Pucello, referente nazionale di Amunì, che da Roma coordina i percorsi avviati a macchia di leopardo in tutto il Paese. I progetti sono finanziati da Libera, ma anche da donazioni esterne e varie forme di autofinanziamento. Da quest’anno poi il Dipartimento per la giustizia minorile, in occasione del 21 marzo, ha sostenuto le spese di viaggio, vitto e alloggio per i ragazzi che hanno soggiornato a Milano quattro giorni.
“Oltre al 21 marzo – spiega Pucello – l’altro momento cardine è il campo estivo a Napoli, che dura sette giorni e coinvolge i ragazzi provenienti dalle altre regioni. La nostra non è un’azione diretta, semmai siamo le tante occasioni di incontro per aprire altre prospettive nei ragazzi. Non diciamo dove sta la verità ma offriamo loro un paio di occhiali diversi in grado di mostrare altro, poi sta ai ragazzi scegliere da che parte stare. In fin dei conti, se conoscono una sola strada percorreranno quella, con due bisogna fare una scelta”.
Fare bilanci è complicato, non esiste un monitoraggio post Amunì che porti a un follow up. “Nel corso della presa in carico, durante la messa alla prova, che può anche durare due anni – aggiunge Pucello – quasi tutti i ragazzi non hanno recidive, a volte qualcuno abbandona ma non sappiamo cosa succede”. I percorsi avviati da Amunì sono tutti uguali. “Non facciamo interventi ad personam, come avviene nella maggior parte delle messe alla prova. Non sono percorsi individuali, la proposta è unica e si rivolge al gruppo”.
La vera difficoltà, però, è remare controcorrente: sfatare continuamente la narrazione secondo cui progetti simili sono soltanto una perdita di tempo. “Possiamo scegliere di mettere i ragazzi in galera senza offrire opportunità alternative, ma quando usciranno saranno gli stessi. La seconda via è cercare di fornire loro occasioni di crescita, di messa in discussione, strumenti idonei a riconoscere la responsabilità personale delle loro azioni e la capacità di capire l’impatto negativo che queste azioni possono avere su loro stessi, sulle persone, sulla comunità. È una scommessa, non funziona sempre, ma anche se solo qualcuno di questi ragazzi cambia è una vittoria della società”.
Con Mare fuori, la serie televisiva prodotta da Rai fiction a partire dal 2020, il tema carcere minorile è tornato in auge (ma il carcere minorile non è come Mare fuori, spiega l'ex giudice Ennio Tomaselli). “Ma è una distorsione della realtà – dice Pucello – i miei figli adolescenti guardano gli episodi e pensano che la detenzione sia quasi una vacanzetta. Il carcere sembra figo, tutto è molto romanzato, ma la realtà è diversa. Il minorile è comunque un carcere, con qualche libertà in più rispetto agli adulti e molto più votato alla riabilitazione, ma pur sempre di detenzione si tratta. La vita in quei posti non è così semplice come si è voluto rappresentare”.
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