Aggiornato il giorno 28 maggio 2021
Aggiornamento: Marco Venanzi, titolare del Caffè Biotorre di Tor Bella Monaca al centro di questo articolo, è scomparso nei primi giorni di dicembre a causa del Covid
Siamo nel VI municipio, precisamente a Tor Bella Monaca, periferia est della Capitale. Un quartiere noto alle cronache quasi esclusivamente per fatti legati alla criminalità, allo spaccio e all'abbandono da parte delle istituzioni ormai cronico, fatta eccezione per qualche rara comparsata, quasi sempre in prossimità dell’ennesima scadenza elettorale. Grande cinque volte Corviale e circa dieci volte le attuali tre Vele superstiti di Scampia, nel quartiere si registra la maggior concentrazione di alloggi popolari non solo di Roma, ma su scala nazionale: 4mila di proprietà del Comune e 1.495 di Ater, l'Azienda territoriale per l'edilizia residenziale pubblica della provincia. Secondo un recente rapporto di Osservatorio Casa, su un campione di 1.297 famiglie, qui il 41% si trova in condizioni di povertà assoluta. Un dato che arriva al 52% se si considerano anche quei 130 nuclei familiari che non hanno voluto partecipare allo studio perché occupanti. Si tratta di una percentuale quasi sei volte superiore alla media nazionale che si attesta intorno al 7%. Di queste famiglie il 22% ha reddito zero.
Roma è diventata la Capitale delle disuguaglianze
Ma la povertà non è l'unico problema: qui le difficoltà sono sempre maggiori che altrove. Se si parla di gioco d'azzardo, a Roma si contano oltre 5.896 esercizi con AWP (le normali slot-machine e videopoker che si trovano in bar, ristoranti, tabacchini) e 515 sale con videolottery (Vlt, apparecchi collegati in rete tra loro e posizionati solo in sale da gioco dedicate), mentre nel solo 2018 i romani si sono giocati circa quattro miliardi di euro nel gioco d'azzardo. Una cifra che, secondo il Libro blu dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, contribuisce a rendere il Lazio la seconda regione d'Italia per spesa in slot machines con 7.926 milioni di euro in un anno. Il VI municipio, oltre a essere il secondo più grande della Capitale per numero di abitanti (257mila) è anche il secondo per numero di giocatori che rischiano di sviluppare un rapporto problematico (tra le 2.270 e le 6.160 persone) e/o patologico (tra 875 e 3.852 abitanti) con slot machine, scommesse e videolottery, come dimostra l’ultimo censimento dell’associazione Sos azzardo.
È facile in queste condizioni dimenticarsi degli altri. Mors tua vita mea direbbero in molti, soprattutto quando si è abituati a fare i conti con la carenza di servizi, una disoccupazione alle stelle e un tasso di abbandono scolastico tra i più alti in città. Poi ci sono le eccezioni, quelle che però spesso non fanno notizia. Marco Venanzi ha 54 anni e da 16 è il titolare del Caffè Biotorre, a pochi passi dal teatro di Tor Bella Monaca, a tutti gli effetti “il bar del teatro”, gestito a conduzione familiare con sette dipendenti, incluso un ragazzo del Bangladesh che lavora con Marco da quando ha aperto l’attività. Sembra, eppure non è un bar come tutti gli altri, o almeno non è come la maggior parte dei bar della Capitale, nei quali dopo aver preso il caffè, puoi giocarti il resto alle slot machine. Non qui. Una decisione contro ogni logica di mercato, una scelta di campo, come molte altre nella sua vita, sempre rivolte al prossimo: dall’impegno politico nei primi anni Ottanta per il diritto alla casa, alle lotte territoriali per garantire la scuola ai bambini del quartiere, fino al corso di ricerca e salvataggio della Protezione civile insieme ai suoi due labrador.
Cosa c’è all’origine di questa scelta?
Dobbiamo partire dall’inizio: ho cominciato a fare il barista quando avevo 14 anni, è stato il mio primo lavoro. All’epoca vivevo a Primavalle, un quartiere popolare nella periferia ovest di Roma, ed è proprio lì che ho imparato il significato di far parte di una comunità. Di quel periodo ricordo le difficoltà economiche, i sacrifici di mio padre e le sue lacrime quando ci disse che eravamo sotto sfratto e che non potevamo più rimanere nella nostra casa. Ma più di ogni cosa ricordo la dignità e la generosità delle persone che ho incontrato in quegli anni, di chi mi ha insegnato l’importanza di prendersi cura dell’altro, del più debole, di chi è in difficoltà.
Quanto è difficile conciliare un ideale con le esigenze di guadagno legate a un’attività commerciale?
Non è facile, ma ci si prova. All’inizio, forse anche in modo un po’ ingenuo, non vendevo nemmeno la CocaCola. Cercavo di evitare di vendere prodotti delle multinazionali più “aggressive”, ma poi ho dovuto fare i conti con la realtà, per cui ho capito che solo con il guaranà, i caffè e le caramelle non sarei andato molto lontano.
Sulle slot-machine, però, ha fatto un ragionamento differente, anche più radicale. Perché?
Perché conosco i rischi del gioco d’azzardo e in che tipo di inferno si possa trasformare la dipendenza dal gioco. Ho visto decine di persone rovinarsi la vita, la loro e quella dei familiari, seduti, incollati davanti a quelle macchinette, giocandosi compulsivamente stipendi, risparmi, pensioni.
"Conosco l'inferno in cui si può trasformare la dipendenza da gioco, ho visto decine di persone rovinarsi la vita incollati a quelle macchinette"
E significa cosi tanto per lei, al punto da rinunciare a un potenziale guadagno?
Sì, perché anche io ho una famiglia. Il punto è che la notte voglio dormire tranquillo e al mattino poter guardarmi allo specchio senza vergogna. Non potrei farlo se accettassi di guadagnare anche solo un euro da quella roba, soprattutto sapendo che un padre potrebbe tornare a casa senza il pane o il latte perchè magari si è giocato i soldi nel mio bar.
Immagino che in questi anni ci sia stato chi abbia provato a farle cambiare idea in merito.
Certo. Poco dopo aver aperto l’attività, avevo quasi già stipulato un contratto per essere abilitato a effettuare le ricariche telefoniche, erano venuti i tecnici, avevano già preso le misurazioni. Poi un giorno arrivò un addetto a comunicarmi che mi avrebbero concesso l’autorizzazione solo se avessi messo due slot nel locale.
"Avevo quasi già stipulato un contratto per effettuare le ricariche telefoniche. Poi un giorno arrivò un addetto a comunicarmi che mi avrebbero concesso l’autorizzazione solo se avessi installato due slot"
E al suo rifiuto?
Sembrava non crederci, mi diceva: “Ma lei non capisce, guardi che ci si paga due stipendi!”. Gli ho risposto: “Lo so già, non mi sta dicendo nulla di nuovo, ma io quella roba non la voglio qui dentro, né ora, né mai”.
Come è andata a finire?
Che ancora oggi se vuoi ricaricare il cellulare devi andare in un altro bar! (ride) In compenso abbiamo allestito un angolo di book-crossing dove puoi prendere, leggere e scambiare libri.
Eppure non sono in molti a fare questo ragionamento.
Lo so, ma ci tengo a chiarire una cosa: io non ce l’ho con gli altri gestori che hanno fatto una scelta diversa dalla mia. Capisco che oggi avere e mantenere finanziariamente un’attività è difficile, quasi impossibile.
Quindi la responsabilità di chi è?
Dello Stato che, anziché regolamentare in modo serio il gioco d’azzardo e fornire degli strumenti utili a chi vuole uscire dal tunnel, finge di non vedere il problema e continua a guadagnare sulla ludopatia, non curante del dramma che c’è dietro né della disperazione che genera.
Il quartiere come ha reagito a questa sua decisione?
La reazione del quartiere mi ha sorpreso, anzi mi ha quasi commosso. Non me l’aspettavo e invece sono stati tanti i ragazzi e le associazioni che mi hanno supportato, dimostrandomi solidarietà anche con gesti concreti, invitando altre persone a venire qui a fare colazione, proprio per premiare la scelta di rinunciare alle slot machine. Diciamo che in quel momento ho capito che non ero solo in questa mia battaglia.
Possiamo considerare la sua scelta come un atto d’amore verso il quartiere e le persone che lo vivono?
Questo bar è la mia famiglia allargata e voglio che anche le persone che lo frequentano stiano bene e si sentano a casa. Tutti, nessuno escluso. Ma non mi riferisco solo alle slot machine. Voglio dire, se entri nel mio bar e mi chiedi un superalcolico, te lo servo tranquillamente. Vada anche per il secondo. Ma se barcolli e mi chiedi il terzo, chiudo il frigo e ti invito a tornare a casa, possibilmente a piedi.
Alla fine dei conti, ne vale veramente la pena?
Certamente. Si dice sempre che di fronte alle difficoltà bisogna saper andare avanti. Vero, ma a me è stato anche insegnato che prima di farlo, dobbiamo voltarci e assicurarci che non sia rimasto indietro nessuno. Questo per me è il significato della parola comunità.
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