
Referendum 8 e 9 giugno, come votare da fuorisede e i quesiti

1 maggio 2025
La nostra Costituzione così si esprime a proposito della guerra (art. 11): "L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo". Sono molti i casi in cui, rileggendo gli articoli della Costituzione, si rimane ammirati di fronte alla cura con cui vennero scelti termini ed espressioni. Qui, in primo luogo, attira la nostra attenzione il verbo “ripudia”. È un ripudio istintivo? Evidentemente no, come risulta chiaramente dalle due specificazioni successive: il ripudio riguarda la guerra in primo luogo come strumento di offesa e in secondo luogo come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Il che lascerebbe intendere – fino a prova contraria – che la guerra non viene affatto ripudiata dalla nostra Costituzione come strumento di difesa.
Come già in altre occasioni, è istruttivo ricostruire – sia pure per sommi capi – il processo dialettico che condusse alla risoluzione finale. Nel caso della guerra, furono due le alternative proposte prima di giungere alla decisione terminale del “ripudia”: vennero infatti proposti i verbi “rinuncia” e “condanna”. Ma “rinunciare” descriveva un comportamento prettamente giuridico, come quando si intende rinunciare a un diritto, e “condannare” pareva essere, a sua volta, un gesto limitatamente morale: “ripudiare” andava oltre, poiché dava l’impressione di voler sintetizzare in un’espressione più pregnante entrambi gli aspetti.
Come già detto, i costituenti non pensavano certo a un “ripudio istintivo” (tesi facilmente smentita dalla storia, soprattutto da quella più recente, se ce ne fosse stato bisogno). Pensavano tuttavia – potremmo supporre – a un atteggiamento di rifiuto consapevolmente discusso, meditato, intimamente interiorizzato, fatto proprio: non dunque un mero accordo politico, una deliberazione di tipo assembleare o parlamentare, bensì una scelta valoriale, che auspicabilmente si cala nel profondo della cultura di un Paese mentre si rinnova e si ricostruisce tra le macerie fisiche e morali di una guerra da poco conclusa.
Mussolini dichiarò guerra a Francia e Gran Bretagna quando il suo alleato occupava buona parte dell'Europa: non vedeva l'ora di sedersi accanto ai vincitore
L’articolo 11 venne approvato dall’assemblea Costituente nella seduta pomeridiana del 24 marzo del 1947. Soltanto sette anni prima, nel pomeriggio del 10 giugno 1940, Benito Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia a Roma, aveva pronunciato il discorso con cui dichiarava l’entrata in guerra dell’Italia contro la Francia e la Gran Bretagna, già ferocemente aggredite dalla Germania nazista.
Sarebbe bene riudire e rivedere quel discorso: ciò che colpisce non sono soltanto le parole farneticanti del Duce, ma le continue ovazioni di una folla sedotta e vogliosa di entrare in guerra, come dimostrano i “sì” ripetuti e urlati più volte alla fine del discorso di Mussolini. E non era soltanto la folla romana di piazza Venezia, ma le folle di tutte le principali città italiane.
I padri costituenti del 24 marzo 1947 avranno avuto ben presente nella loro memoria le folle allucinate del 10 giugno 1940. Per questo non bastava “condannare” (moralmente) o “rinunciare” (giuridicamente) alla guerra: occorreva giungere fino al punto che la società italiana potesse sviluppare una cultura (un sistema di valori interiorizzati) tale da “ripudiare” la guerra. Come tutti sanno, Mussolini dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna quando ormai il suo amico e alleato nazista stava occupando buona parte dell’Europa: non vedeva l’ora di sedersi accanto al vincitore e spartirsi il bottino di guerra. Ma il popolo, le persone, la società perché applaudirono in modo così sconsideratamente entusiasta la propria adesione alla dichiarazione di guerra? Altro che ripudio. Le folle italiane – in quel fatidico pomeriggio del 1940 – dimostrarono di essere sedotte dalla guerra, di amarla e di volerla.
La guerra seduca perché è la realizzazione e l’incremento vertiginoso della nostra libertà e la negazione, lo schiacciamento della libertà altrui
In effetti, si può, si deve, si decide di ripudiare la guerra, proprio in quanto la guerra è in grado di sedurre: ci vuole il ripudio (qualcosa di più della condanna morale o della rinuncia giuridica) per spingere le proprie radici almeno fino là dove si annida il germe della seduzione dalla guerra. Perché, e in quale senso, la guerra seduce? In questo breve scritto, non si può fare altro che limitarci a un accenno.
Tenendo conto di alcuni studi antropologi, a noi pare che non sia il caso di supporre che la guerra affondi le proprie radici in una natura umana di per sé violenta e bellicosa – tipo: homo homini lupus. Vorremmo sfruttare di più il significato di seduzione: se si trattasse di natura umana, gli esseri umani sarebbero obbligati per natura a fare la guerra; invece, in determinate circostanze la scelgono con entusiasmo.
Sotto il profilo antropologico, la guerra non è una necessità, è una potenzialità. Perché la guerra seduce? Tento una risposta audace. La guerra seduce, in quanto 1) gli umani sono condannati alla libertà (Sartre); 2) la libertà è potere (Voltaire); 3) la guerra è la manifestazione estrema del “nostro” potere e della “nostra” libertà, a discapito ovviamente del potere, della libertà, della vita degli “altri”. La guerra è la realizzazione e l’incremento vertiginoso della nostra libertà e la negazione, lo schiacciamento della libertà altrui.
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