Rosario Livatino, un martire laico

La beatificazione del magistrato siciliano, ucciso il 21 settembre 1990 dalla Stidda, ci insegna che l'eroismo sta nel compiere il proprio dovere

Rosy Bindi

Rosy BindiEx ministra della Salute, presidente Commissione antimafia nella XVII legislatura

15 gennaio 2021

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"Non fu colpito nell’esercizio delle sue responsabilità ecclesiali, né per esse fu ucciso né in rapporto esplicito con la sua professione di fede, bensì nel cuore della sua professionalità e della sua fedeltà a servizio della città degli uomini. Per questo potremmo definire la sua morte una sorta di martirio laico". Le parole con le quali il cardinale Carlo Maria Martini commentò la morte di Vittorio Bachelet sono risuonate in me quando il 21 dicembre è stata annunciata la beatificazione del giudice Rosario Livatino. Martire, certo, perché ucciso "in odio alla fede", ma in virtù della quale ha servito la giustizia fino ad accettare consapevolmente di andare incontro alla morte. Giovanni Paolo II nel 1983 lo aveva infatti definito "martire della giustizia e indirettamente della fede". Il regalo natalizio di Papa Francesco contiene molti significati. Proviamo a scartarne alcuni.

Rosario Livatino (LaPresse)
Rosario Livatino (LaPresse)

Da Giovanni Paolo II a Francesco, quando la Chiesa scomunicò la mafia

Con i magisteri di Giovanni Paolo II e Francesco sono state pronunciate parole definitive di condanna contro la mafia. È noto a tutti che l’invettiva contro la mafia lanciata da Papa Wojtyla nel 1993 nella valle dei Templi fu pronunciata dopo l’incontro con i genitori del giudice assassinato. Oggi Papa Francesco – che ha scomunicato i mafiosi e tracciato un confine invalicabile tra il Vangelo e la Chiesa cattolica da un lato e la mafia e la corruzione dall’altro – promulga il decreto che riconosce quell’assassinio, un martirio. Così come Papa Benedetto XVI nel 2012 aveva riconosciuto il martirio di padre Puglisi.

Per troppo tempo, in troppi hanno taciuto un uso strumentale della religione da parte dei poteri mafiosi

Chi si interroga da sempre sulla capacità delle mafie di avere e di saper alimentare il consenso – l’arma di gran lunga più forte del loro potere –, conosce bene il ruolo importante che l’uso distorto e strumentale della religione ha avuto, soprattutto nelle terre di origine delle mafie. E forse potremmo aggiungere che, per troppo tempo, in troppi hanno taciuto e non si sono ribellati a quell’uso strumentale della religione, della fede, della Chiesa da parte dei poteri mafiosi, magari in ossequio a una visione della fede che aveva dimenticato che il Dio di Gesù Cristo è il Dio della vita e non della morte, è un Dio che vuole essere amato, servito e adorato nell’umanità. Oggi quell’arma potente non è più in mano alla mafia, è contro la mafia. La mafia la teme, molto, forse più di ogni altra.

Il regalo del Natale 2020 di Papa Francesco riconosce il martirio di un giovane magistrato ammazzato nel compimento del suo ordinario dovere di pubblico ministero prima, e di giudice dopo. L’eroismo di Rosario Livatino è tutto qui: il compimento del suo dovere. Ripercorrendo la sua vita, rileggendo le preziose pagine dei suoi diari e le uniche due relazioni che ci ha lasciato, non emerge che questa straordinaria verità: il compimento intelligente, appassionato, scrupoloso dei suoi doveri ordinari.

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Essere un magistrato, negli scritti di Livatino

Cosa c’è di straordinario nel modo in cui Livatino descrive il compito del magistrato? "Il compito del magistrato è quello di decidere. Decidere è scegliere… e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare, ma tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze.... quanto sarà disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte. Compito del magistrato non deve essere solo quello di rendere concreto il comando astratto della legge, ma di dare alla legge un’anima".

L’eroismo è tutto qui: il compimento intelligente, appassionato, scrupoloso dei suoi doveri ordinari

E ancora sull’indipendenza del magistrato: "Il giudice oltre che essere deve apparire indipendente… L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella sua coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica... ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori dalle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni... nella scelta delle sue amicizie, nella indisponibilità ad affari, nella rinuncia ad ogni desiderio di incarichi e prebende".

Ancora più chiara appare la sua visione di indipendenza del magistrato quando affronta il rapporto con la politica negando ogni possibilità di appartenenza partitica fino a prevedere che, una volta intrapresa una eventuale carriera politica, si debba definitivamente abbandonare la magistratura. Ancora più netta l’esclusione di partecipazione per un magistrato "a organizzazioni di fatto più o meno riservate o, comunque, non facilmente accessibili al controllo dell’opinione pubblica, i cui aderenti risultano fra loro legati da vincoli della cui intensità e natura nessuno è in grado di giudicare e valutare".

Livatino è stato ucciso perché era un magistrato come lo erano Falcone e Borsellino, così come Dalla Chiesa è stato eliminato perché era un prefetto, Mattarella e La Torre perché erano politici, Fava e Impastato perché erano giornalisti, don Puglisi e don Diana perché erano preti, Lea Garofalo perché era una mamma. Per combattere e sconfiggere la mafia non servono eroi, ma cittadini e cittadine che fanno il loro dovere. Sono ancora parole di Rosario Livatino: "Non ci verrà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili". Tutto qua.

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