17 febbraio 2022
La mattina del 27 settembre 2020 Ishkhan Gevorgyan, cappellano militare di Sisian, in Armenia, si precipita alla base. Trova i giovani soldati già alle loro postazioni e capisce che si è riacceso il conflitto decennale contro l’Azerbaijan per la regione del Nagorno-Karabakh, territorio incastonato tra le montagne del Caucaso meridionale.
Era il 1991, anno della dissoluzione dell’Unione sovietica, quando questa regione nell’Azerbaijan a maggioranza armena proclama l’autodeterminazione, poi confermata da un referendum. Le tensioni tra armeni e azeri innescano la prima guerra del Nagorno-Karabakh (1991-1994), sfociata nell’indipendenza de-facto del Karabakh e nel controllo armeno di sette distretti azeri attorno all’enclave. Le ostilità riaffiorano prima nel 2016 con la Guerra dei quattro giorni, e poi ancora in quella dei 44 giorni, tra il 27 settembre e il 10 novembre 2020, quando Baku, Yerevan e Mosca firmano un accordo trilaterale di cessate il fuoco. Secondo le stime dell’International crisis group, sono stati circa settemila i militari uccisi in quest’ultima guerra, quasi 170 i civili e centinaia i dispersi. Più di un anno dopo l’accordo trilaterale, la situazione rimane tesa mentre soldati, civili armeni e azeri affrontano ancora il trauma della guerra. Il cappellano militare Gevorgyan crede che il sacrificio dei morti non debba essere vano: "Questi ragazzi hanno sacrificato la loro vita per il loro Paese e per la loro gente, che è cosa sacra nella Bibbia e non c’è amore più grande – racconta –. Abbiamo un dovere nei loro confronti: preservare la terra che hanno salvato morendo. Ho un figlio e spero che un giorno diventi un soldato".
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