12 luglio 2022
In anteprima dal prossimo numero de lavialibera "Povero lavoro" pubblichiamo una riflessione di Fabio Cantelli Anibaldi sulla scelta di Fedez di condividere gli audio di una seduta psicoterapeutica.
Provo da anni un fastidioso rigetto tutte le volte che m’imbatto nella notizia di una malattia grave, anche incurabile, che ha colpito una persona nota al cosiddetto pubblico, notizia che la stessa persona ha diffuso attraverso i propri canali social, accompagnandola spesso a dichiarazioni di guerra al male che l’ha colpita. Notizia subito ripresa dai media con attenzione direttamente e morbosamente proporzionale alla fama della persona, la quale continua, finché può, ad alimentare il fuoco dell’attenzione con puntuali resoconti sullo stato della sua guerra privata al male, bollettini volti a rassicurare o commuovere il pubblico.
Di recente l’ha fatto il noto pianista Giovanni Allevi, annunciando su Instagram che è “iniziata la battaglia” contro il mieloma che lo ha colpito, ma il salto di qualità l’ha compiuto il talentuoso e ancor più famoso rapper Fedez che, superata un’operazione chirurgica per l’asportazione di un tumore – "lo stesso di Steve Jobs", ha tenuto a precisare – ha pubblicato stralci audio di una seduta psicoterapeutica avvenuta quando, saputo di avere un cancro potenzialmente letale, aveva sentito il bisogno di confessare la sua angoscia e il suo smarrimento.
Non ho ascoltato quegli stralci: un sentimento di pudore e imbarazzo me l’ha impedito. Pudore che non ha invece frenato centinaia di migliaia persone. Lungi da me aggregarmi alla folla dei censori o difensori di Fedez, quello che ha fatto – d’ora in poi, più cordialmente, Federico – è irriducibile ai parametri della cosiddetta morale, visto che si tratta di un’azione che non reca danno alcuno. Nemmeno però mi aggrego alla terza fazione di giudici, che liquida la faccenda pensando che “sono fatti suoi”.
L'adolescenza è l'età dello specchio
Sapersi colpiti da una malattia potenzialmente letale inchioda a un radicale confronto con se stessi
Mi limito quindi a un paio di considerazioni su un fenomeno che ritengo sia sintomo di qualcosa di profondo. Riflessione scaturita dalla convivenza con una malattia che mi avrebbe potuto uccidere trent’anni fa ma che non l’ha fatto per imperscrutabili ragioni, forse trovando nel mio corpo e nella mia psiche un ambiente ideale per soggiornare in quiete.
Prima considerazione: il sapersi colpiti da una malattia potenzialmente letale o cronicamente invalidante inchioda a un momento di radicale confronto con sé stessi in cui non si può fare a meno di riflettere sulla propria vita, sul senso che ha avuto e su quello che ci piacerebbe avesse nel tempo residuo, giacché parlare di futuro non è più possibile. È un momento di verità nel quale ti guardi da fuori con uno sguardo in cui la cura di te si manifesta paradossalmente come intransigenza. Momento in cui l’arbitro di te stesso che di colpo sei diventato si rende conto che gran parte degli spettacolari “goal” segnati nei precedenti campionati erano viziati da fuori gioco o tocchi di mano. Momento di verità che senti dunque di dover proteggere col silenzio e col dialogo muto con la tua coscienza, per poi parlarne semmai solo alle persone intime, quelle che ti amano o che ti hanno voluto bene.
Da questo momento di bruciante verità sono nate grandi opere come La coscienza di Zeno di Italo Svevo, La montagna incantata di Thomas Mann, Il respiro di Thomas Bernhard. O confessioni perturbanti come quella di Wittgenstein che, pur sapendo della carneficina in atto, chiese e ottenne di essere mandato in uno dei fronti della prima guerra mondiale: "Forse la vicinanza della morte mi porterà la luce della vita" scrisse nel suo diario.
L’io vuole essere sempre primattore, a maggior ragione quando si trova di fronte alla malattia e alla morte
Ora, mi rendo conto che non è facile mettersi in gioco senza ricorrere a trucchi e fuori gioco quando si riceve la notizia di una più che probabile morte imminente. Come mi rendo conto che nella mia scelta di accettare la malattia invece di contrastarla, esibendo magari pose eroiche, ha avuto un peso l’aver subito sin dall’adolescenza il fascino del death appeal almeno quanto quello del sex appeal (forse avvertendo l’oscura tresca tra i due), al punto da scegliere la frase di Georges Bataille "bisogna vivere ad altezza di morte" come stella capace di orientarmi nella notte di un futuro magari rischioso ma certamente intenso. Come pure riconosco che nel mio familiarizzare con la morte è stato cruciale l’aver assistito, una decina d’anni dopo, tanti coetanei che arrivavano a San Patrignano malati di Aids conclamato, giovani che ho visto morire a frotte a causa di un virus di cui ignoravo essere a mia volta infetto.
Note e sogni a margine di SanPa
Ma, posto che pochi hanno avuto il privilegio di un’educazione al morire come la mia e che la morte è il grande rimosso dell’Occidente, l’allestimento attorno a malattie gravi e all’irripetibile occasione di consapevolezza che offrono di una messinscena insieme ciarliera e roboante è segno della malattia profonda di cui è affetto proprio questo Occidente, non più capace di affrontare la malattia e la morte.
Questa malattia profonda ha un nome brevissimo: io. L’io è un regista e un attore che non ammette di non essere protagonista, che vorrebbe attorno a sé solo spettatori o al limite attori di secondo piano che gli facciano da spalla. Un attore che, volendo essere sempre primattore, a maggior ragione lo vuole quando si trova di fronte alla potenza della malattia e all’ignoto della morte.
E qui vengo alla seconda considerazione: essendo per sua natura l’io estroflesso, sempre agghindato e bene in vista, non ha mai praticato l’ardua disciplina della conoscenza di sé, mai praticato l’intimo e intransigente dialogo con sé stessi, lacuna che vincola però il suo sentimento di esistere alla presenza di un pubblico che approvi, applauda o anche fischi: l’importante per lui è non sentirsi mai inosservato, sentirsi fino alla fine al centro dell’attenzione.
È questa, ritengo, la molla dell’esposizione pubblica di fatti molto intimi come l’essere affetti da una malattia grave e forse terminale: il bisogno di sentirsi riconosciuti. Bisogno che nell’epoca dei social media è esploso in forme parossistiche innescando una competizione globale dove vince chi abbaia più forte o chi più attira l’attenzione mostrando viscere e “pudenda” psichiche.
Avrei voluto invitare Fedez a custodire con cura la lezione impartita dalla malattia grave o incurabile: saper distinguere l’essenziale dal superfluo
Una cosa mi ha intenerito della reazione di Federico alle accuse di narcisismoin articulo mortis (parola abusatissima e fuori luogo, narcisismo, patologia che concerne una radicale e spesso tragica aspirazione di totale autonomia dall’altro, cioè l’esatto contrario dell’assillo dell’egocentrico, che dell’altro ha continuamente bisogno come di uno specchio compiacente in cui veder riflessa la propria immagine). Mi ha intenerito che abbia risposto ai suoi accusatori dicendo che l’idea di pubblicare stralci della seduta con lo psicoterapeuta è nata dal bisogno di "esorcizzare il male e di avere una carezza pubblica".
Quando ho letto quelle parole avrei voluto trovarmelo davanti e dirgli: "Giovane amico mio non farti pericolose illusioni, i riconoscimenti e le carezze pubbliche sono fuochi di paglia. Un conto è sentirsi riconosciuto, un altro esserlo. E l’unico vero riconoscimento può venire da te stesso, se ti sei avventurato nell’ardua esplorazione dei tuoi limiti e della tua reale natura, oppure dalle persone che ti amano come tua moglie, i tuoi bambini nonché, ti auguro, qualche amico". Questo avrei voluto dire a Federico per poi, prima di abbracciarlo, invitarlo a non perdere mai di vista la differenza tra intimo e pubblico, tra ombra e luce, tra silenzio paziente fonte di parole meditate e silenzio impaziente generatore di parole a vanvera. Invitarlo a custodire con cura la lezione impartita dalla malattia grave o incurabile: saper distinguere l’essenziale dal superfluo, sapere che permette, tra l’altro, di frequentare dimensioni pubbliche senza perdere o vendere la propria anima.
"Gli dei sono diventati malattie" scrisse in modo folgorante Carl Gustav Jung nel 1929. Non voleva rassegnarsi, il veggente svizzero, al fatto che gli dei stessero fuggendo da un mondo che, con le nascenti comunicazioni di massa e il frastuono che ne conseguiva, stava annientando gli spazi di silenzio, ombra e riflessione che da sempre gli dei prediligono per manifestarsi sotto le mentite spoglie di una malattia, di una passione, di un amore e anche di una morte. Esilio del sacro di cui si avvide peraltro un altro veggente dell’epoca, Martin Buber, che in Confessioni estatiche scrisse: "Tacciamo l’esperienza vivente, ed essa sarà una stella che muterà il nostro corso. Parliamo dell’esperienza vivente ed essa sarà scaraventata nello scalpiccìo del mercato".
Ti auguro, Federico, di non perdere mai di vista la tua intima stella affinché la sua luce non si confonda mai con quelle del palcoscenico. E di nuovo ti abbraccio con sincera, potenziale amicizia.
Crediamo in un giornalismo di servizio ai cittadini, in notizie che non scadono il giorno dopo. Aiutaci a offrire un'informazione di qualità, sostieni lavialibera
La tua donazione ci servirà a mantenere il sito accessibile a tutti
Record di presenze negli istituti penali e di provvedimenti di pubblica sicurezza: i dati inediti raccolti da lavialibera mostrano un'impennata nelle misure punitive nei confronti dei minori. "Una retromarcia decisa e spericolata", denuncia Luigi Ciotti
La tua donazione ci servirà a mantenere il sito accessibile a tutti