I regionalismi alla prova di Covid

La crisi sanitaria ha mostrato l'inefficacia della privatizzazione e del depotenziamento degli organi centrali del sistema sanitario. Cartina di tornasole dei rischi di un regionalismo che vuol essere "secessione dei ricchi"

Giuseppe De Marzo

Giuseppe De MarzoPoltiche sociali di Libera e coordinatore della Rete dei numeri pari

29 aprile 2020

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In queste settimane così difficili per il nostro Paese c’è una drammatica realtà che la diffusione del coronavirus ha evidenziato: l’Italia delle piccole patrie regionali non è da preferire all’unità della Repubblica e, soprattutto, garantisce meno sicurezza e diritti per tutti e tutte. L’altra drammatica realtà, esplosa nella carne del Paese, è che le politiche di austerità messe in campo nel 2008 e la cultura della competizione e dell’individualismo diffusa dal liberismo economico ci hanno resi tutti più diseguali, fragili e impauriti. Allo stesso tempo, la crisi sanitaria che stiamo vivendo, mettendo in luce la nostra fragilità di esseri umani e l’interdipendenza tra noi e tutte le forme viventi, ci ricorda che sono la resilienza, la cooperazione e la solidarietà le uniche modalità con cui è possibile uscire dalle crisi. Che sarebbe successo se fosse passata l’autonomia differenziata? La proposta è arrivata prima dal governo gialloverde, dalle Regioni Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e infine Piemonte e poi dal governo giallorosa attraverso la legge quadro Boccia (dal nome di Francesco Boccia, attuale ministro per Affari regionali e Autonomie, ndr). Se fosse passata la legge quadro staremmo vivendo una catastrofe di gran lunga superiore a quella alla quale siamo costretti.

Dieci anni di impoverimento della sanità

È bastata l’emergenza sanitaria per dimostrare l’inefficacia della regionalizzazione e privatizzazione del sistema sanitario (sono stati tagliati 28 miliardi solo negli ultimi dieci anni), che ha invece portato al depotenziamento degli organi centrali come l’Istituto superiore della sanità e il ministero della Salute, mostrando lacune, confusione e poca trasparenza. Dopo anni di un unico mantra bipartisan (Lega-Fdi-Fi-M5s-Pd) sulla magiche e progressive sorti del “privato è bello ed è sempre meglio”, siamo dinanzi a un’amara e lampante constatazione: la difesa dell’interesse generale e la salvaguardia dell’universalità dei diritti è innanzitutto garantita dal pubblico e difesa dalla comunità, non dagli interessi privati che, legittimamente, divergono perché hanno come obiettivo quello del profitto, che spesso contrasta con il diritto alla salute, al lavoro, all’istruzione, alla mobilità. Per giuristi e costituzionalisti l’autonomia differenziata rappresenta il più grande tentativo di ridefinizione di competenze e poteri da quando vennero istituite le Regioni nel 1970. Eppure se ne sa quasi nulla.

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La secessione dei ricchi

Il dibattito è stato volontariamente silenziato per evitare che la cittadinanza si facesse un’idea propria e partecipasse davvero alla discussione. La paura della partecipazione dei cittadini e dei corpi sociali intermedi alle decisioni politiche contraddistingue l’attuale fase della democrazia rappresentativa, ormai travolta dal fallimento strutturale della governance liberista a cui ha improvvidamente affidato il suo unico punto di vista. Questa crisi, insieme a quella del progetto europeo, lo dimostrano. Il problema sta nella pessima riforma del Titolo V (della Costituzione, parte che riguarda le autonomie locali, ndr), fatta nel 2001 dal centrosinistra per inseguire la Lega sul suo terreno, che consente tentativi di manomissione dei principi costituzionali. L’autonomia differenziata si traduce infatti in una "secessione dei ricchi", come denunciato tempo addietro dal professor Gianfranco Viesti dell’Università degli studi di Bari, e nel più grande attacco mai visto all’unità della Repubblica.

La proposta contenuta nella bozza di legge quadro del ministro Boccia, qualora passasse, istituzionalizzerebbe le disuguaglianze fotografate dalla spesa storica e rafforzerebbe la regionalizzazione già in atto con il risultato di tante piccole patrie e la totale assenza di politiche uniformi su temi vitali per noi e per la democrazia: salute, lavoro, ambiente, energia, trasporti. , che significano garantire il pieno soddisfacimento del principio di uguaglianza: formale e sostanziale. Aspettiamo invece da 20 anni la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni come previsto dalla Costituzione, che il governo con l’autonomia differenziata vorrebbe definiti dalla ragioneria dello Stato con un criterio tecnico misurato sui limiti di spesa imposti dal patto di stabilità e dalle politiche di austerità: sarebbe la fine dei diritti sociali universali.

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La resa ai privati

La legge quadro Boccia rappresenta una resa agli interessi privati, un concreto pericolo per tutti i cittadini e per i lavoratori italiani, azzerando allo stesso tempo il ruolo del Parlamento, visto che prevede che venga sottoscritta direttamente dal governo con il presidente della Regione. Quanto successo in campo sanitario con l’emergenza coronavirus – le migliaia di morti, l’assenza di posti letto, macchinari e Dpi (dispositivi di protezione individuale, ndr) in molte zone del Paese, l’imbarazzante disparità della situazione tra Nord e Sud, il sacrificio di migliaia di medici e infermieri, le mancate assunzioni del personale necessario a garantire la salute pubblica, l’assenza di una cultura della prevenzione – dimostra l’urgenza e la necessità di fermare ogni processo di autonomia differenziata su materie fondamentali per la nostra vita e per l’unità della Repubblica. Per questo il Comitato italiano per il ritiro dell’autonomia, i 50 comitati locali nati spontaneamente, le centinaia di realtà sociali della Rete dei numeri pari e tanti altri continuano a chiedere al governo di fermarsi per il bene di tutti e tutte e aprire una riflessione e una grande campagna nel Paese per definire insieme i Livelli essenziali di prestazione su tutto il territorio nazionale.

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