28 gennaio 2020
In italiano l’espressione inglese “gated community” si può tradurre come “comunità recintata”. Si tratta di aree residenziali dotate di tutti i servizi e comfort necessari come dei normali quartieri. Ma recintati e con accesso riservato a pochi eletti. L’ingresso ai non residenti è subordinato, infatti, a una specifica autorizzazione. A seconda della grandezza, all’interno si possono trovare aree verdi, scuole, biblioteche, ristoranti, palestre, spa.
Da raggruppamenti di poche abitazioni a vere e proprie cittadine, le gated communities sono piccoli paradisi inespugnabili, protetti da sistemi di sicurezza (da cui l’aggettivo inglese gated) di vario tipo: dalla videosorveglianza alla presenza di guardie armate, fino alla costruzione di recinzioni. Un fenomeno che è il risultato di una retorica securitaria che è riuscita a ridisegnare l’ambiente urbano e gli spazi comuni. Come scrive la ricercatrice Manuela Porcu sulla rivista Cambio, il vero elemento di esclusione di queste comunità non è tanto l’esistenza di un perimetro recintato, quanto “l’idea che per accedere ad alcuni servizi basilari, come un ambiente tranquillo e non inquinato, sia necessario disporre di risorse economiche sufficienti”. Come avverte Porcu: “La posta in gioco è alta e riguarda l’idea di città che si intende perseguire”.
Le prime esperienze di gated community nascono negli Stati Uniti. Qui le comunità residenziali private sono passate in quattro decenni, dall’inizio degli anni Settanta al 2012, da 10 mila unità a 300 mila casi. Una forma diffusa è l’associazione di proprietari: con l’atto di acquisto i proprietari entrano a far parte di un’associazione che gestisce la comunità attraverso regolamenti e imposte. Accettarne la normativa interna, di solito stabilita dalla stessa impresa costruttrice, è condizione necessaria per fare parte della gated community. Così facendo, l’impresa costruttrice vende non solo una proprietà, ma un modello di vita.
A partire dagli anni Ottanta le gated communities si sono diffuse in tutto il mondo, soprattutto nelle città caratterizzate da una maggiore densità di popolazione e in Paesi provati da forti disuguaglianze economiche come nel caso dei condomínios fechados in Brasile o dei barrios privados in Argentina.
È il Messico a detenere la più elevata percentuale di abitanti residenti all’interno delle gated communities. Più recentemente, queste forme di residenza si sono diffuse anche come risposta a una crescente insicurezza. In Sudafrica, ad esempio, sono sorte in zone ad alta densità criminale.
La madre delle comunità recitante a firma italiana è nata nel comune di Fontanafredda, in provincia di Pordenone, nel 2007. Due metri e mezzo di muro in cemento armato per una lunghezza di 800 metri costruiti per difendersi dagli immigrati. Il piccolo villaggio protetto si chiama Borgo Ronche ed è sorto come risposta alla crescente domanda di sicurezza. Secondo gli studiosi della materia, la prima vera gated community italiana è, però, Borgo di Vione, nata nel 2011 nell’hinterland milanese. Il caso più recente è, invece, quello di Borgo San Martino, un complesso di villette costruito nel 2017 a Treviso, nel quartiere di San Bona, alla periferia della città.
Borgo di Vione, la prima gated community italiana | Foto inchiesta
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