30 giugno 2023
Quando si parla di scuola, e in particolare della scuola pubblica in Italia, si tende a considerarla come un monolite. Un unico grande insieme di pregi e difetti antichi e nuovi. I dati ci dicono, tuttavia, che la scuola italiana è caratterizzata da forti disuguaglianze, territoriali e sociali. C’è un divario storico tra Nord e Sud, e anche all’interno delle città la disparità salta spesso all’occhio. Ci sono istituti d’eccellenza con spazi curati, attrezzature moderne e un’offerta formativa ricchissima – oltre a quella didattica che prevede gite, sport e arte – che di solito si trovano nei quartieri più ricchi. Nelle periferie, invece, vediamo sovente strutture inadeguate: edifici cadenti e tante meno risorse per rispondere a bisogni che sono invece maggiori, date le condizioni di svantaggio sociale e culturale da cui provengono molti studenti. Neppure la generosità e la passione che buona parte degli insegnanti mette nel lavoro riescono a compensare il divario di opportunità che viene così a crearsi.
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Questa situazione a macchia di leopardo rappresenta un tradimento della scuola pubblica, intesa come palestra di formazione dei cittadini. Ma c’è dell’altro. Non sono solo le disparità geografiche e sociali a frenare l’istruzione. Si è andata perdendo, nel tempo, l’idea che la cultura sia un valore in sé, un bene da affidare alle future generazioni come bagaglio indispensabile per la vita. Oggi da più parti si invocano saperi orientati all’utile, conoscenze tecniche funzionali alle attività produttive. Un sapere, insomma, che serve a qualcosa, non al servizio della persona che lo acquisisce.
Questo tipo di sapere è lo stesso che ci si aspetta dalla scuola, soprattutto nei suoi gradi superiori, come dimostra la scelta del ministero di inserire nei formulari di preiscrizione alle classi secondarie un piccolo vademecum sulle competenze e professionalità più richieste nel mondo del lavoro. Così che le famiglie possano orientare i figli a studiare qualcosa di immediatamente spendibile e riconosciuto.
La scuola di massa, obbligatoria e gratuita, non era nata però con questo spirito! Era stata una grande conquista di civiltà frutto degli ideali egualitari della democrazia, che avevano esteso al popolo intero ciò che fino a quel momento era prerogativa delle classi agiate. La cultura veniva finalmente proposta a tutti come strumento per "stare meglio al mondo" e rispondere alle domande di base dell’essere umano, al suo bisogno di senso e di esempi sui quali fondare le proprie relazioni, le proprie aspirazioni, il proprio impegno all’interno della comunità.
Abbandonare quell’impronta iniziale sarebbe imperdonabile. La scuola non deve limitarsi a trasmettere conoscenze. Deve insegnare prima di tutto a pensare, cioè a porsi domande. La domanda è la madre del pensiero e una società che non interroga e non si interroga non può essere libera e democratica. Una società dove la verità è ricerca di verità, dove cioè tutti i valori fondamentali della convivenza, la pace, la giustizia, l’uguaglianza sono cantieri sempre attivi, luoghi di impegno e di utopia.
Per questo la scuola autentica è sempre a suo modo sovversiva, officina di pensiero critico, spina nel fianco dei conformismi, avversaria della delega, dell’indifferenza e della rassegnazione. Una scuola consapevole che il suo ruolo non è solo quello di istruire, ma di educare bambini e bambine, ragazzi e ragazze, cittadini e cittadine "sovrani", come diceva don Lorenzo Milani.
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Oggi, purtroppo, le competenze sembrano prevalere sulla comprensione, il saper fare sul saper stare: stare insieme agli altri in modo responsabile e costruttivo. Una scuola così non parla al cuore dei giovani, al loro disorientamento e alle loro speranze.
Si guarda con preoccupazione all’analfabetismo di ritorno, ossia la tendenza a scordare rapidamente quanto appreso durante gli anni scolastici. Ma a me preoccupa ancora di più l’analfabetismo sociale di chi, anche al termine di un ottimo percorso di studi, è incapace di trasferire i saperi dalla sfera astratta e generale al suo ambito peculiare di vita, dalla carta alla carne, dalla dimensione personale a quella dei rapporti umani.
L’istruzione gratuita e obbligatoria è stata una grande conquista di civiltà, frutto degli ideali egualitari della democrazia, che avevano esteso a tutti ciò che prima era prerogativa delle classi agiate
Un’ulteriore debolezza è la tendenza a scaricare sui destinatari del servizio le colpe dei suoi limiti. Sentiamo spesso ripetere che i giovani di oggi sono pigri, incapaci di sforzi e sacrifici. Ma quale sforzo, come adulti, dimostriamo di fare nei loro confronti? Una scuola che, al netto della buona volontà e dell’estro dei singoli docenti, si accontenta di programmi piatti, lezioni standardizzate e conoscenze superficiali, che stimolo e soprattutto che esempio offre? Ciò che servirebbe per cambiare davvero le cose – e che gli insegnanti migliori già fanno, combattendo contro la povertà di tempo e risorse – è un impegno educativo di tipo sartoriale, tagliato sulle esigenze del singolo territorio e del singolo ragazzo o ragazza.
Ci sono tante cose coraggiose e preziose che gli istituti di tutta Italia realizzano ogni giorno, anche in territori molto difficili, per contrastare la dispersione scolastica, il degrado urbano e il disagio giovanile. La scuola non è certo la causa di tutti i mali, anzi sa diventarne l’antidoto. Investire in questa direzione non può restare la meritevole scelta di alcuni, ma deve emergere come volontà politica trasversale. Chi ama la scuola la pungola, come fece don Milani la cui figura è ricordata in queste pagine. Chi, invece, si schiera sulla difensiva o si accontenta di un servizio al ribasso, non ama né la scuola, né gli studenti.
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