8 settembre 2023
La giustizia ci riprova. Per l'omicidio di Maria Chindamo, imprenditrice di Laureana di Borrello (Reggio Calabria) scomparsa il 6 maggio 2016, la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro ha indagato un uomo, Salvatore Ascone detto “Pinnularu”, su cui già erano sorti molti sospetti. È accusato, insieme al figlio Rocco (all’epoca minorenne), di concorso in omicidio della donna, il cui corpo non è mai stato ritrovato. Secondo gli inquirenti, l’uomo ha manomesso il suo sistema di videosorveglianza per agevolare i killer. Il dato è emerso giovedì 7 settembre 2023, nella seconda ondata di arresti dell’inchiesta Maestrale-Carthago condotta dai carabinieri e coordinata dalla Dda di Catanzaro. Quello di Maria Chindamo sembra apparire sempre di più come un femminicidio compiuto con le modalità tipiche della 'ndrangheta avvenuto sul territorio di Limbadi, paesino del Vibonese spesso passato alle cronache come feudo della potente famiglia Mancuso.
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Sono 84 le persone destinatarie di misura cautelare (29 in carcere, 52 ai domiciliari e tre con obbligo di presentazione alla pg), tra cui anche professionisti ed ex politici. Si aggiungono ai 61 fermati lo scorso 10 maggio nel primo filone dell’inchiesta che arriverà a contare in tutto 170 indagati. Nel lungo rosario di nomi si legge anche quello di Salvatore Ascone detto “Pinnularu”. L’uomo, i cui terreni confinano con quelli dell’impreditrice, era stato già coinvolto in un primo procedimento sull’omicidio di Maria Chindamo, ma scagionato. I collaboratori di giustizia lo identificano come “soggetto pericoloso”, capace anche di allontanare in modo aggressivo gli operatori tv di Chi l’ha visto? che facevano visita a quei luoghi alla ricerca della verità.
All’inizio dell’indagine Maestrale-Carthago l’uomo era sospettato soltanto di aver preso parte a un traffico di droga e di essere il delegato per conto del clan Mancuso – si legge in atti – a gestire il territorio della frazione Montalto di Limbadi dove “esercita la propria influenza criminale”. “Senza il permesso degli ‘mbrogghia(il nomignolo della famiglia mafiosa, ndr) non muove una foglia", dice di lui il collaboratore di giustizia Antonino Belnome, descrivendolo come assoggettato al ramo della cosca facente capo a Giuseppe, fratello di quel Luigi Mancuso ritenuto il “capo dei capi” della ‘ndrangheta nel Vibonese.
Adesso, nell’indagine, ad Ascone viene anche contestato il reato di concorso in omicidio insieme a suo figlio Rocco, minorenne al momento dell’omicidio, per aver manomesso – proprio nel giorno della scomparsa di Maria Chindamo – il sistema di videosorveglianza installato sulla sua proprietà e orientato precisamente sul luogo in cui è stata ritrovata l’auto dell’imprenditrice col motore ancora accesso e con vicine tracce di sangue e capelli. L’obiettivo di Ascone nell’oscurare la scena del crimine, sospettano gli inquirenti, era “fornire un contributo alla commissione dell’omicidio della donna, agevolando gli autori materiali”, ancora da individuare.
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“Mia mamma è stata sempre molto libera, ha fatto le sue scelte in modo consapevole, sereno, tranquillo e probabilmente, nella terra del ‘pari bruttu’, una donna così può spaventare, può dare fastidio”Federica Punturiero - Figlia di Maria Chindamo
L’8 maggio 2015 Ferdinando Punturiero, padre dei figli di Maria Chindamo, si toglie la vita poco tempo dopo la separazione. I suoi familiari, e in particolare il suocero Vincenzo Punturiero (morto nel 2017), ritengono che la donna sia responsabile del suicidio. La Chindamo, in questo frattempo, si era trovata a gestire anche i terreni di loro proprietà. Era diventata imprenditrice agricola e aveva deciso di tornare a studiare all’università. Una vita nuova segnata anche da una nuova relazione: due giorni prima della scomparsa aveva postato su un suo profilo social una foto che la ritraeva col nuovo compagno, un poliziotto. La Dda aveva ipotizzato che il suocero fosse, insieme ad altre persone non ancora individuate, il mandante dell’omicidio per vendicare il suicidio del figlio e per punire la donna.
“Mia mamma è stata sempre molto libera, ha fatto le sue scelte in modo consapevole, sereno, tranquillo e probabilmente, nella terra del ‘pari bruttu’, una donna così può spaventare, può dare fastidio”, aveva scritto nel 2020 Federica Punturiero, secondogenita di Maria Chindamo. Il 6 maggio 2016, giorno della scomparsa della madre davanti al cancello di un loro terreno agricolo, la ragazza aveva appena 15 anni. Da allora, per sette anni, Federica, suo fratello Vincenzino, sua sorella Letizia e loro zio, Vincenzo Chindamo, si sono battuti per ottenere verità e giustizia.
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Negli anni dopo la sparizione, gli inquirenti iniziano a unire i puntini intrecciando il racconto di diversi collaboratori di giustizia. Già a luglio 2019, Emanuale Mancuso, primo pentito della cosca e figlio del boss Pantaleone detto “l’ingegnere”, col suo racconto aveva permesso di istruire un processo contro Ascone. Il sospettato, definito un “maniaco della videosorveglianza”, gli avrebbe rivelato come il 6 maggio 2016 si sarebbe premurato di spegnere le sue telecamere. L’ipotesi di una manomissione del sistema proprio in quello specifico giorno non viene ritenuta credibile dal tribunale dei Riesame , secondo cui non ci sarebbero stati “elementi certi” per provarla. Il coinvolgimento di Ascone nel fatto sarebbe dovuto al suo “interesse ad appropriarsi di quei terreni”.
A inizio 2020 arrivano le dichiarazioni di Antonio Cossidente, appartenente al clan lucano dei Basilischi e compagno di cella di Emanuele Mancuso. Da lui avrebbe saputo che “era scomparsa una donna a Limbadi, un’imprenditrice”, uccisa e il corpo era stato “dato in pasto ai maiali”. Dinamica confermata anche da Mancuso, appresa dal figlio di Ascone al quale qualche tempo prima aveva regalato una moto da cross. “Si legò a me e io mi guadagnai la sua fiducia. Era come se fossi un idolo (per i figli di Ascone, ndr) – racconta Mancuso –. Mi disse che, in 20 minuti, i maiali si erano divorati il corpo della donna e che avevano poi triturato i resti delle ossa con una fresa o con un trattore. Questo racconto mi fu fatto qualche tempo dopo la scomparsa della donna”.
Al racconto si unisce anche la voce dell’ex boss di Vibo Valentia, Andrea Mantella, secondo cui uno dei Mancuso, Diego detto “Mazzola”, avrebbe adocchiato una piantagione di kiwi che la Chindamo “non voleva vendere”: “Disse che era una ‘tosta’ a non voler vendere, mentre il marito era un ‘babbo’, nel senso un bonaccione. In sostanza, l’idea era quella di comprare ad un prezzo stracciato la proprietà della Chindamo per poi darla in gestione per la coltivazione a Salvatore Ascone”.
“Questa sua libertà, questa sua voglia di essere indipendente, di essere donna non le è stata perdonata e tre giorni dopo che aveva postato sui social la foto con il suo nuovo compagno è sparita"Nicola Gratteri - Procuratore capo di Catanzaro
Sulla base di questi racconti, la Dda sembra aver individuato le ragioni del delitto e alcuni responsabili. I magistrati parlano di “convergenza di moventi” dietro quello che a tutti gli effetti è descritto come un omicidio di ‘ndrangheta. “Non gli è stata perdonata la sua libertà”, ha detto in conferenza stampa il procuratore Nicola Gratteri. Tutto questo perché donna in terra di ‘ndrangheta. “Questa sua libertà, questa sua voglia di essere indipendente, di essere donna non le è stata perdonata e tre giorni dopo che aveva postato sui social la foto con il suo nuovo compagno è sparita. La sua uccisione è stata straziante. Questo dà il senso e la misura della rabbia e del risentimento che chi ha ordinato l’omicidio aveva nei suoi confronti”, ha spiegato Gratteri. Negli istanti successivi al blitz, Vincenzo Chindamo, fratello di Maria, ha dichiarato: “Aver perseguito per tutti questi anni la ricerca della verità sull’uccisione di mia sorella alla fine ha dato risultati. Non ho mai smesso di credere nell’operato della magistratura, e quanto è emerso oggi premia quella perseveranza. Oggi l’aria ha il profumo della giustizia”.
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