A sinistra, Jesse Owens. A destra, Alfred Nakache
A sinistra, Jesse Owens. A destra, Alfred Nakache

Una data lega le storie olimpiche di Jesse Owens e Alfred Nakache

In anteprima il racconto scritto da Gianni Mura, maestro del giornalismo sportivo scomparso lo scorso 21 marzo, per "Al cuore dello sport. Dodici storie di passione, lotte e conquiste", prima pubblicazione della collana "Libricini" de lavialibera

Redazione <br> lavialibera

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29 giugno 2020

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 "Al cuore dello sport. Dodici storie di passione, lotte e conquiste" è la prima pubblicazione della collana "Libricini" de lavialibera. "Questo libro di dodici racconti, che generosamente hanno scritto per noi giornalisti, atleti, allenatori, ci fa scorrere addosso un sentimento di bene, che riesce nel tempo a non prendere polvere – scrive Lucilla Andreucci nell'introduzione –. Atleti che si riconoscono e si sfidano in una pista d’atletica, in un campo sportivo, su una pedana. Storie di chi si è ripreso la vita proprio attraverso lo sport. Di chi è sopravvissuto a un campo di sterminio ed è tornato a marciare, a nuotare. Di chi non si è arreso. Racconti di cui dobbiamo conservare la memoria, che danno forza e fanno bene all’umanità dello sport. E anche alla nostra. Teniamo alta la guardia perché quella linea di partenza, che almeno nello sport è uguale per tutti, resti senza ombre. Per continuare insieme a tifare, emozionarci, educarci, sentendoci tutti parte di uno stesso mondo".

Il libro, che sarà inviato come omaggio agli abbonati sostenitori de lavialibera, può essere comprato sul sito di Libera. I ricavati saranno devoluti a sostenere progetti di sport nelle scuole.

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Il ragazzo con la pelle nera non era sicuro di andare alle Olimpiadi di Berlino, nel 1936. Negli Usa vi furono molte manifestazioni contrarie, e non solo da parte dei cittadini ebrei, alla partecipazione dello squadrone americano ai Giochi di Hitler. A Barcellona si stava organizzando una Controlimpiade, ma lo scoppiare della guerra civile impedì questa presa di posizione pubblica contro il nazismo. Prevalse il parere di Avery Brundage, presidente del comitato olimpico Usa. Garantì che in Germania non ci sarebbero state discriminazioni. Però la componente nera della spedizione era minima e in più d’una occasione atleti ebrei sotto la bandiera a stelle e strisce furono tolti dagli elenchi di partenza.

Il ragazzo con la pelle nera ha 23 anni, è nato in Alabama, settimo di dieci figli di una famiglia di contadini. Suo nonno era uno schiavo. È vero che Lincoln aveva abolito la schiavitù nel 1865, ma sarebbero passati 100 anni prima che gli afroamericani avessero uguali diritti: Civil Right Act nel 1964, Voting Right Act nel 1965. Nel 1935, ad Ann Arbour, in meno di due ore Owens aveva realizzato quattro record mondiali: 100 yarde, 220 yarde piane e ad ostacoli, salto in lungo (8.13). Il 3 agosto 1936 Owens a Berlino vince i 100 metri e diventa un beniamino del pubblico, lo chiamano la gazzella nera. Non tutti allo stadio sono filonazisti.

La mattina del 4 agosto, qualificazioni del lungo. Sul prato dello stadio si vedono per la prima volta il ragazzo biondo, con la pelle bianca, e quello nero. Quello nero sa che l’altro è il favorito: 23 anni anche lui, si chiama Carl Ludwig Long (un presagio, per un lunghista). Gli amici lo chiamano Luz, o Lutz. È nato a Lipsia da una famiglia dell’alta borghesia, studia Giurisprudenza, è più atletico di Owens: 1.84 x72 contro 1.78x 71. Si salutano, scambiano qualche frase di circostanza. Long è uno specialista del salto, Owens, anche se campione del mondo, non ha fatto allenamenti specifici. Infatti, con una serie di nulli, rischia di non entrare in finale. Ed è qui che scatta la molla della sportività, del “siamo tutti uguali”. Long va a parlare con Owens, gli dice che è troppo teso, che uno coi suoi numeri non può fallire la finale. E gli dà un paio di consigli: allungare la rincorsa e marcare con una maglietta bianca il punto di battuta. E’ grazie a Long che Owens ottiene la qualificazione.

Ragazze e ragazzi che leggete, se la storia finisse qui sarebbe già una bella storia. Sarebbe bella anche se avesse avuto per protagonisti due bianchi, o due neri, dieci anni prima o dieci anni dopo. Ma è la sua collocazione, Berlino 1936, a renderla esemplare, oppure quasi incredibile. Long aiuta Owens, pur sapendo che è l’unico che può batterlo, perché crede nello sport come incontro, non come scontro, e perché la pelle nera per lui non indica un untermensch, un sottouomo di razza inferiore, come dicevano i nazisti, ma un uomo come lui, un atleta come lui.

Finale emozionante. Owens sempre avanti, di poco. Al quarto salto, 7.87 contro 7.84, al quinto Long pareggia a 7.87 ma Owens sale a 7.94. Nullo l’ultimo salto di Long, 8.06 per Owens. Il primo a stringergli la mano e ad abbracciarlo, appena si rialza dalla sabbia, è Long. E parlando vanno insieme verso gli spogliatoi. In tribuna Hitler è livido di rabbia. Prima che cominciassero le Olimpiadi Hitler s’era detto disponibile a premiare solo i vincitori tedeschi. O tutti o nessuno, avevano replicato quelli del cerimoniale, con quel po’ di autonomia che gli era rimasta. Una domanda resta in piedi da quel pomeriggio: Hitler strinse la mano a Owens oppure no? Una vera e propria stretta di mano no, ma stando alla biografia di Owens un tentativo andato a vuoto ci fu. Ci resta la testimonianza del quarto classificato, l’italiano Arturo Maffei: “Fu una scena alla Ridolini. Hitler allungò il braccio nel saluto nazista mentre Owens tendeva la mano. Allora Hitler tese a sua volta la mano, ma Owens aveva portato la sua alla fronte per il saluto militare”. Il giorno dopo il ragazzo dell’Alabama vinse i 200 metri e il 9 agosto la staffetta 4x100. Dopo 48 anni a Los Angeles un altro ragazzo dell’Alabama, Carl Lewis, avrebbe vinto 4 ori nelle stesse specialità. Owens aveva chiesto di non disputare la staffetta: “Ho già vinto abbastanza, fate correre gli altri”. Il quartetto era composto da soli bianchi: Draperer, Wykoff, Stoller e Glickmann. Gli ultimi due, ebrei, vennero depennati su richiesta di Brundage (ancora lui) e i neri Owens e Metcalfe corsero le prime due frazioni.

Tornato a casa, sul saluto, sì o no, di Hitler, Owens disse: “Non mi sono sentito offeso da lui. Piuttosto, ho vinto 4 medaglie d’oro per gli Usa e il mio presidente non mi ha nemmeno spedito un telegramma”. Vero. A Berlino, Goebbels aveva detto: “Gli americani dovrebbero vergognarsi a mandare i negri a vincere medaglie al posto loro”. Forse non si vergognavano, ma nemmeno ne menavano vanto, bloccati o da convinzioni para razziste o, nel caso degli inquilini della Casa Bianca, dal timore di perdere i voti degli elettori del Sud. Franklin Delano Roosevelt ricevette con tutti gli onori gli olimpionici bianchi ma non spese mezza parola per Owens, né tantomeno lo ricevette, e allo stesso modo si comportò Truman, il suo successore. I primi onori pubblici glieli tributarono Gerald Ford nel ’76 e Jimmy Carter nel ’79. Per lui nessun contratto pubblicitario, nessun guadagno importante. Passò professionista, corse contro auto, moto, camion, cavalli, levrieri. Fece il bidello, il benzinaio, il disc-jockey, il conferenziere, ma sempre entrando negli alberghi dalla porta di servizio e salendo sugli autobus da quella posteriore. Fu anche preparatore atletico degli Harlem Globetrotters di basket. “Molti di questi lavori li ho fatti malvolentieri, ma erano tutti lavori onesti e dovevo pur mangiare”, disse.

La storia cominciata il 4 agosto sul prato di Berlino non finisce lì, Long e Owens si erano scambiati gli indirizzi e avevano continuato a scriversi. Nella primavera del 1943 Owens riceve questa lettera: “Caro amico Jesse, qui dove siamo sembra ci siano solo sabbia e sangue. Non ho paura per me, ma per mia moglie e il mio bambino che non ha mai realmente conosciuto suo padre. Il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse essere ti chiedo questo: quando la guerra sarà finita vai in Germania a trovare mio figlio e raccontagli di suo padre. Parlagli di quando la guerra non ci separava, e digli che le cose tra gli uomini possono essere diverse, su questa terra. Tuo fratello Luz”. Fu davvero l’ultima lettera. Long si era laureato e sposato, il figlio Kai nacque nel ’42. Luz fu richiamato alle armi come ufficiale della Luftwaffe, e ferito nella battaglia all’aeroporto di Biscari. Morì 4 giorni dopo, il 14 luglio 1943. E Owens nel ’51 esaudì il suo desiderio e andò in Germania, ad Amburgo, a parlare col figlio di Long. E quando Kai si sposò, l’invitato d’onore era Owens. E nel 2009, ai mondiali di Berlino, Kai Long e sua figlia Martine abbracciarono Marlene Dortch, la nipote di Owens. Jesse, sempre con la moglie Ruth al fianco (si erano sposati giovani, nel ’35) morì di cancro ai polmoni il 31 marzo 1980. Fumava un pacchetto di sigarette al giorno, anche da atleta. Lo ricorda un viale, vicino allo stadio di Berlino. Long è sepolto nel cimitero di Motta Sant’Anastasia (Catania), fossa comune 2, piastra E. La storia è finita solo in apparenza. Ogni storia vera che viene raccontata e ascoltata continua a camminare e a vivere. Questa era una storia con due protagonisti. La prossima ne avrà uno.

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A Berlino ’36, con risalto molto minore, gareggia per i colori francesi ancheAlfred Nakache, nuotatore ebreo, ultimo di 11 figli, nato nel 1915 a Costantina, in Algeria. Da bambino aveva il terrore dell’acqua. Lo vince buttandosi in una piscina e diventa un campione. Nel ’33 si sposta in Francia per diventare un nuotatore professionista. Nel ’36 si piazza quarto nella staffetta 4x200, proprio davanti ai tedeschi. Gareggiava per il Racing Club Parigi ma l’occupazione nazista della capitale lo spinge a cercare rifugio nella Francia libera, a Tolosa. Nel ’41 Nakache inanella record europei e mondiali. Ha sposato Paule, anche lei ebrea, capitana della squadra di basket. Dall’ottobre del ’40 Alfred ha perso la cittadinanza francese. E i tedeschi arrivano ad occupare anche Tolosa, l’11 novembre del ’42. Ci sarebbe una via di fuga verso la Spagna, non lontana, ma Alfred e Paule rinunciano quando s’accorgono che i pianti della bambina possono fare scoprire tutto il gruppo. È il fratello di Nakache a rivelare questo particolare, non lui. La figlia si chiama Annie, ha due anni. Alfred ha voluto che nascesse a Costantina, ma s’è reso conto che l’antisemitismo in Algeria era ancora più violento che in Francia. A Tolosa i nazisti perquisiscono casa per casa. I Nakache affidano la bambina a una coppia di amici, che la tengono nascosta. Intanto, il 20 dicembre, sono arrestati, il loro appartamento saccheggiato, coppe e medaglie rubate, fino alla coltellata finale: Annie rintracciata, Annie messa insieme ai genitori nel carcere di Saint Michel, poi nel campo di Drancy.

Destinazione finale: Auschwitz. Il treno numero 66 parte dalla stazione di Bobigny il 20 gennaio 1944, e arriva dopo 29 ore. All’arrivo un soldato, senza dire una parola, ordina ad Alfred di mettersi in coda sulla sinistra, a Paule con la bambina in braccio è riservata la fila di destra. Un cenno con la mano mentre salgono su un camion. Nakache non le rivedrà più. In quel momento non sa che a destra vanno quelli destinati direttamente ai forni crematori (donne, malati, vecchi, bambini): è solo questione di giorni. A sinistra vanno quelli ritenuti in grado di lavorare, finché ce la fanno. Ad Auschwitz Nakache lavora all’infermeria, ma i nazisti sanno chi è e vogliono divertirsi. Prima umiliare, poi eliminare. Nei campi di concentramento si organizzano spesso, tra soldati e internati, incontri di boxe al termine dei quali “deve” vincere l’ariano puro. Visto che Nakache è un nuotatore, per lui c’è la piscina. Che non è una piscina vera ma una grossa vasca che serve da riserva d’acqua, in caso d’incendio. L’acqua è sporca, d’inverno gela e col caldo puzzerà, e lì deve tuffarsi ogni giorno Nakache, come un cagnolino obbediente, a recuperare gli oggetti lanciati dai soldati: monete, pietre, pugnali. Credono di umiliarlo ma è lui, il prigioniero numero 172763, che li umilia. Mai un lamento, sorride spesso, addirittura chiede l’autorizzazione a fare tuffi supplementari per allenarsi meglio. Gli interessa restare vivo e sapere di Paule e Annie. Parla solo francese, col pugile Victor Perez e con un italiano magrissimo (ma lo sono tutti, lì dentro) che si chiama Primo Levi.

E arriva anche il giorno che bisogna lasciare Auschwitz perché sta avanzando l’Armata rossa. Nakache è tra i 1.368 che partono a piedi verso Gleiwitz e Buchenwald. Dove arriveranno in 47, lui compreso. È stata chiamata la Marcia della morte. Chi non è morto di fame e di stenti è stato falciato da una raffica di mitra perché restava indietro, o cercava di scappare. Come il suo amico Victor Perez. A Buchenwald, Nakache trascorre circa tre mesi, e si trattiene ancora per qualche settimana dopo la liberazione. Per due motivi: c’è bisogno di lui ma, soprattutto, spera di avere qualche notizia di Paule e Annie. Niente. Ma non si rassegna all’idea di pensarle morte. Quando torna a Tolosa, ogni mattina va alla stazione ferroviaria nella speranza di rivederle, o di incontrare qualcuno che le ha conosciute. Niente. Alfred è ridotto a uno straccio d’uomo, pesa meno di 40 kg, il giorno della partenza pesava il doppio, e soffre per un ascesso all’orecchio, dovuto probabilmente alle tante immersioni nell’acqua sporca. Ha, nel dolore che lo opprime, una fortuna: gli amici della piscina, che scopre intitolata a lui creduto morto. L’amico più vero si chiama Alex Jany: hanno condiviso prestazioni- record e ore felici, prima che la ferocia sconvolgesse il continente. Jany e sua moglie sono vicini più che possono ad Alfred. Lo ospitano a casa loro, gli fanno riprendere gradatamente peso, gli ridanno la voglia di andare in piscina.

Dopo tutto quello che ha passato, Nakache è ancora capace di stabilire il record mondiale della 3x100 mista, con Jany e Vallerey, nell’agosto del ’46 ed è selezionato per le Olimpiadi del ’48 a Londra, da cui la Germania è esclusa. Arriva alle semifinali dei 200 farfalla e nel torneo di pallanuoto (vinto dall’Italia di Cesare Rubini) si piazza sesto. Voi dite che sarebbe una bellissima storia se avesse vinto una medaglia a Londra? A me pare bellissima anche così. Dopo anni di persecuzioni, di dolori fisici e morali in cui alla negazione dell’umanità ha opposto la dignità e la resistenza. Nakache si è ripreso la vita, in qualche modo l’ha rimessa insieme, grazie agli amici, al suo temperamento da campione vero, alla voglia di non arrendersi. Quando lascia l’attività agonistica, fa il massaggiatore per la squadra di calcio di Tolosa. Nel ’50 sposa Marie, una ragazza di Sète, e va a vivere lì, in una casetta in riva al mare. Per cinque anni è istruttore di nuoto a Rèunion e quando torna in Francia si concede una nuotata tutti i giorni, o quasi. Un attacco di cuore lo uccide mentre sta nuotando nel golfo di Cerbère, il 4 agosto 1983. È sepolto a Sète nel cimitero di Py, come Georges Brassens. Aveva chiesto, molti anni prima, che sulla sua tomba fossero incisi anche i nomi di Paule e Annie e così è stato fatto. Un 4 agosto è cominciata la prima storia, un 4 agosto è finita la seconda. Finita per modo di dire, ripeto. Ho raccontato fatti, date, numeri, ma la parte più impegnativa tocca a chi legge: immaginarsi i sentimenti di allora, dal più alto al più basso, o almeno provarci. Documentarsi, se crede. E sapere che se una signora padovana a fine 2019 twitta “Ebrei al forno coi negri di contorno” non è un caso né un’esercitazione di macabro umorismo. È odio puro. Il controveleno è che il giorno della Memoria sia tutti i giorni.

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