Foto Flickr/MJWho
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Ultras, il "dodicesimo uomo"

È riduttivo dire che gli ultras sono solo dei tifosi violenti. Le tifoserie organizzate aggregano, creano spettacolo, mantengono viva la passione popolare. E su di loro vengono sperimentate forme di controllo poi estese ad altri ambiti della società

Rosita Mercatante

Rosita MercatanteGiornalista

Lorenzo Sorgente

Lorenzo SorgenteDottorando in Studi sulla criminalità organizzata, presso l'Università Statale di Milano

2 settembre 2024

Si considerano il “dodicesimo uomo”. Una moltitudine di persone che all’unisono intona canti coinvolgenti, capace di allestire coreografie con striscioni, bandiere, sciarpe e fumogeni, creando così uno spettacolo nello spettacolo. Eppure, da decenni, per buona parte dell’opinione pubblica gli ultras rappresentano «il male del calcio», la componente più violenta e incontrollabile del tifo, quella che rischia di «rovinare il gioco più amato dagli italiani». L’ultras, o ultrà a seconda delle preferenze, rappresenta secondo il dizionario Treccani il «tifoso fanatico di una squadra di calcio, spesso appartenente a gruppi organizzati, autore di atti di vandalismo e di violenza contro appartenenti e sostenitori della squadra avversaria». Eppure chi abita quel mondo spesso ridimensiona la sua componente più deprecabile, esaltandone invece la capacità di aggregare in modo trasversale, eterogeneo e interclassista migliaia di tifosi nello stesso spazio. E ancora, sottolinea il merito degli ultras di apportare alla partita l’elemento fondamentale che contribuisce a rendere il calcio il fenomeno sociale che tutti riconoscono: la passione popolare.

Una subcultura

Il termine ultras è forse mutuato dai movimenti che durante la Rivoluzione francese si attestavano su posizioni di ferrea difesa dello status quo, gli ultra-royalistes, e rimanda in modo esplicito al radicalismo. Gli oltranzisti degli stadi sono quindi coloro che vanno oltre, che superano i limiti. Nei fatti il modello ultras rappresenta il salto di qualità del tifo calcistico, l’escalation che i «ragazzi turbolenti» (definizione di Valerio Marchi, militante politico, ultras, libraio e sociologo autore di un libro fondamentale come Ultrà. Le sottoculture giovanili negli stadi d’Europa) portano sui gradoni degli spalti staccandosi dal tifo dei club ufficiali, considerati ormai troppo passivi e moderati nel modo di vivere la partita.

Già negli anni della contestazione, le curve hanno testimoniato gli stravolgimenti politici e sociali fuori dagli stadi

Sarebbe però un errore intendere gli ultras esclusivamente come tifosi violenti, giovani emarginati provenienti dalle periferie più complicate o delinquenti inclini al teppismo e alla criminalità. Essi rappresentano la parte più radicale e passionale del tifo calcistico, una sottocultura – cioè una cultura che si distanzia dalla quella di massa con regole, linguaggi e codici propri, anche stilistici e musicali – esplosa in Italia negli anni Settanta, quando il fenomeno si allarga a macchia d’olio a tutto il Paese, e diventata in seguito un modello per i tifosi in tutto il mondo.

Nel corso della sua storia ultra-cinquantenaria, questo mondo ha dimostrato di saper assorbire le più vibranti trasformazioni della società, specie delle fasce più giovani. Fin dagli anni della protesta studentesca, le curve hanno testimoniato gli stravolgimenti politici e sociali del mondo fuori dagli stadi. E se negli anni Settanta, quando hanno iniziato a diffondersi, la maggior parte dei gruppi era orientata a sinistra, a partire dagli anni Novanta si assiste invece a un progressivo allineamento di molti di questi al fronte opposto, speculare al cambiamento politico del Paese.

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In un calcio diventato industria, mafie ed estremismo di destra entrano negli stadi per fare affari

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