3 novembre 2020
A 25 anni dalla conferenza mondiale di Pechino sulla condizione delle donne qualcosa in meglio è cambiato; ma troppo poco. Femminicidi e varie modalità di violenza ai danni delle donne (fisica, psicologica, socio-economica, verbale…) sono la punta dell’iceberg: il sintomo di un assetto culturale e istituzionale che, da alcuni millenni, implica come “normale” lo squilibrio di opportunità, di fatiche, di rischi fra maschi e femmine. Questo sistema sbilenco – virilista, maschilista, fallocentrico o come altrimenti si qualifichi – è certamente svantaggioso per le donne: che infatti, grazie al movimento femminista (il più esteso ed efficace movimento rivoluzionario del XX secolo), si sono mobilitate e continuano a mobilitarsi per scardinarlo. Ma è, invece, vantaggioso per gli uomini?
Perché le donne stanno pagando il prezzo più alto della pandemia
Da una trentina d’anni, anche in Italia, alcuni maschi si sono convinti che la gabbia del patriarcato imprigioni e mortifichi gli uomini almeno quanto le donne, proprio come i mafiosi sono condannati dal sistema criminale all’infelicità non meno delle loro vittime. Solo maschi incompleti, scarsi di risorse psicologiche, insicuri, sentimentalmente analfabeti, emotivamente imbranati possono ricorrere al linguaggio (parole e gesti) violento per esprimere ciò che provano: solo chi non ha accettato e coltivato il femminile in sé può aver paura, e conseguentemente demonizzare, il femminile che incontra fuori di sé.
Alcuni uomini, consapevoli che ogni forma di sopraffazione ai danni delle donne è, prima di tutto e radicalmente, un problema del genere cui appartengono, hanno dato vita al movimento nazionale Maschile plurale
Alcuni uomini, consapevoli che ogni forma di sopraffazione ai danni delle donne è, prima di tutto e radicalmente, un problema del genere cui appartengono, hanno dato vita al movimento nazionale Maschile plurale: per aiutarsi (con sessioni di autocoscienza e di autoformazione) e aiutare altri maschi (con interventi e testimonianze nelle scuole, nelle università, nell’associazionismo) a inventare e sperimentare modi alternativi di essere uomini. Non più solo il mono-tipo dell’uomo determinato, impositivo, efficiente, produttivo, immune da ogni commozione, alieno da ogni tenerezza, l’uomo che non deve chiedere mai; ma anche altri tipi di uomo: dialogici, autocritici, collaborativi, empatici, sensibili, inclini alla cura dei malati o all’educazione dei bambini.
Un percorso di conversione antropologica in questa direzione consentirebbe lo sradicamento di un sistema, come l’attuale, in cui la sottomissione (per fortuna sempre meno agevole) delle donne costituisce una sorta di palestra per addestrarsi ad altre forme di violenza (contro gli altri animali, l’ambiente, i “diversi”, gli stranieri, i “nemici”) e impoverisce l’umanità intera, privandola delle ricchezze che, in un regime di sinergia delle differenze, potrebbero equamente sperimentare uomini e donne.
Da lavialibera n°5 settembre/ottobre 2020
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