22 dicembre 2020
Cosa succede se sei un noto luminare della medicina e su richiesta del Ministero degli Interni – con il beneplacito dell’Istituto Spallanzani, l’intervento delle università di Milano, Chicago e Trieste – provi a fare uno screening per il Covid-19 (tamponi e sierologico) sugli homeless di Roma e sui minori non accompagnati di Roma e Latina? “Succede che, appena trovi un positivo, ti dicono di smettere”. È il racconto del professor Aldo Morrone, 65 anni, primario al San Gallicano di Roma, uno che ha dedicato tutta la vita agli ultimi, i più fragili, quelli senza dimora, medico di base e documenti. Morrone ha il perfetto phisique du rôle da primario, ma quando apre bocca senti parole da rivoluzionario: “Non sono un buonista, sono uno che si preoccupa per l’impoverimento della nostra collettività. Perché i milioni che scivolano nella povertà hanno costi sociali enormi. O facciamo qualcosa, o ci toccherà mettere mano al portafoglio, ma sarà tardi”.
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Così, Morrone, all’inizio del lockdown decide di mettere in piedi un’indagine sierologica tra gli homeless di Roma. Secondo gli ultimi dati disponibili i senza dimora della Capitale nel 2017 erano almeno 8 mila (50 mila in Italia e 700 mila in Europa). Chi si occupa del problema da vicino racconta che potrebbero essere anche raddoppiati a causa della crisi e, poi, del Covid. “Abbiamo scelto tre zone della Capitale – spiega – : la Stazione Termini, Tor Bella Monaca e il colonnato di San Pietro”. Il progetto è complesso: si tratta di fare l’indagine sierologica dal capillare e venosa per la ricerca degli anticorpi IgG, IgM, IgA e il tampone molecolare. I ricercatori del gruppo di Morrone trovano tanta, troppa gente (per lo più italiani) che è finita in strada da poco, impoverita dalla pandemia. Gente che ha perso il lavoro precario che la teneva aggrappata alla normalità ed è scivolata molto rapidamente nella povertà assoluta.
I ricercatori del gruppo di Morrone trovano troppa gente (per lo più italiani) che è finita in strada da poco, impoverita dalla pandemia
“Da tempo – prosegue Morrone – facevamo un lavoro di educazione preventiva e diagnosi precoce negli ex Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti asilo e Rifugiati; ndr) diventati, col decreto Salvini, Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati; ndr). Dal Ministero degli Interni mi arriva la richiesta di fare anche i tamponi per il Covid a minori rifugiati e personale. Scrivo ai Prefetti di Roma e Latina, nessuna risposta. Poi, per telefono, mi dicono: ‘Lei non può fare questo lavoro’. ‘Perché?’, chiedo, ‘Perché se trova dei positivi noi non sappiamo dove metterli’”. Morrone racconta che uno dei due prefetti era a fine carriera e l’altro stava cambiando sede (oggi sono già stati sostituiti, ndr) e che il Ministero, gli ha chiesto di aspettare e soprassedere. Ma aggiunge che, anche dalla Regione, dopo un rapido via libera ad andare avanti coi tamponi, è arrivato lo stop". La motivazione era la stessa: “Se li trovi e non sono da ospedalizzare, dove li mettiamo?”.
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La vicenda, racconta Morrone, ha un lieto fine perché, grazie a un accordo privato con l’Hotel casa tra noi il problema contingente è stato risolto e già una cinquantina di persone sono state sistemate per il periodo di isolamento. “Ma è il principio che non funziona – insiste il primario – il sistema pubblico, davanti a certe questioni, alza le mani e nasconde la testa sotto la sabbia. Perché ormai, la nostra sanità, partita con grandi obiettivi anche sociali nel 1978, si è parzialmente arresa al mercato. La nostra indagine epidemiologica sui senza tetto, tra l’altro ha dimostrato che queste persone sono mediamente più resistenti al virus perché, con la vita che fanno, hanno già probabilmente incontrato diversi tipi di Coronavirus e hanno sviluppato parziali immunità. Una forma di microimmunizzazione, un po’ come accadde per la Variola del vaiolo scoperta dal grande Jenner (medico britannico considerato il papà dell'immunizzazione, ndr)”. Quindi, anche dal punto di vista sanitario ed epidemiologico, partire dai più fragili può essere utile a capire le vie di diffusione del virus.
"Il nostro Servizio sanitario nazionale è nato dalla battaglia per una sanità pubblica gratuita, universale e solidale. Oggi le persone che ne avrebbero più bisogno sono tagliate fuori"
“I più fragili? Ce li siamo dimenticati – dice Morrone –. Il nostro Servizio sanitario nazionale nacque dalla grande battaglia per una sanità pubblica gratuita, universale e solidale. Col tempo, siamo arrivati al punto che le persone che ne avrebbero più bisogno finiscono fuori dal Ssn. Con la crisi economica, le risorse diminuiscono e restano solo per i più ricchi”. E’ il disegno di un fallimento che il Covid-19 ci ha squadernato davanti agli occhi. È il “sistema Lombardia” basato su grandi ospedali, presidi territoriali abbandonati o quasi, costosissimi macchinari e quantità esagerate di interventi e diagnostica per immagini spesso inutile: “Mi chiedo perché una donna incinta che sta bene debba fare una dozzina di ecografie durante la gravidanza, o perché in Lombardia si mettano più stent coronarici che in tutta la Francia. Nello stesso tempo mi domando perché nessuno ha mai fatto una mammografia o una visita oncologica a una donna che vive per strada. Perché teniamo tutta questa gente fuori dal nostro Servizio sanitario? Perché queste persone, in un ospedale sono viste come un problema?”. Probabilmente perché dicono che sono sporche e puzzano, caro professore: “Purtroppo è così, ma basterebbe un servizio di docce e fornitura di abiti puliti all’ingresso dei nostri ospedali. Invece hanno tolto anche gli assistenti sociali e i consultori materno infantili che avevano diffuso i vaccini e la consapevolezza della loro utilità. Così, senza contrasto, sono cresciuti i no vax”.
Morrone fa notare che gli articoli 3 (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) e 32 (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”) della Costituzione sono stati sostituiti dai Drg che ormai sembrano comandare le logiche sanitarie del nostro Paese. Cosa sono i Drg? L’acronimo significa Diagnosis related group ed è un sistema di classificazione delle prestazioni ospedaliere elaborato nel 1983 dal professor Robert Fetter dell’Università di Yale. Il sistema (che dovrebbe servire anche a controllare la spesa sanitaria) analizza, in base a diversi parametri, l’attività svolta sui singoli pazienti inserendoli in gruppi omogenei in base alle risorse utilizzate per curarli. “In realtà – spiega Morrone – la Sanità pubblica rischia di diventare schiava dei Drg che ti portano a puntare su prestazioni costose che determinano alti rimborsi. Da qui la tendenza a fare tanti esami inutili e a dimenticarsi degli ultimi che, oltre tutto, non sono assicurati”.
La sanità pubblica rischia di diventare schiava di un sistema che punta su prestazioni costose con alti rimborsi. Da qui la tendenza a fare tanti esami inutili e a dimenticarsi degli ultimi
Ma secondo Morrone, invece di dipendere dai Drg, dovremmo occuparci con molta maggiore attenzione dei "determinanti sociali della salute”, ossia le “condizioni economiche e sociali che influenzano le differenze individuali e di gruppo nello stato di salute”. C’è un dato che si porta ad esempio per capire l’importanza di questi “determinanti”. Nel 2016, a Baltimora, grande e ricca città della costa occidentale statunitense, un abitante della zona di Fairfield (la più povera e socialmente disastrata della città) aveva un’aspettativa di vita di 63 anni, uno di Federal Hill (il quartiere più ricco) poteva sperare di arrivare a 83 anni. La distanza tra le due aree è di poche miglia.
Qualcosa a cui, in Italia, siamo poco abituati. Ma queste differenze tra estrema povertà e fragilità e grandi ricchezze oggi toccano anche le nostre città. In Italia, i poveri (dato 2018) erano circa 9 milioni, i poveri “assoluti” esattamente la metà (4,6 milioni). Non ci sono ancora dati post Covid, ma, purtroppo, a giudicare dalle code davanti ai luoghi dove si distribuiscono pacchi alimentari e alle mense della Caritas e di altre associazioni, la situazione è peggiorata. “Di determinanti sociali si è parlato molto nel 2008 – dice Morrone – quando l’Oms ha pubblicato uno studio internazionale al quale avevano contribuito scienziati e politici italiani. Era fatto molto bene e forniva chiare indicazioni sulle direzioni da prendere. In Italia non è stato nemmeno tradotto”.
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I “determinanti sociali” sono stati rivisti a livello di Oms nel 2013. I grafici dicono che l’Italia (in Europa) si colloca più o meno a metà classifica nei vari indicatori. Ma andiamo malissimo (quint’ultimi su 28) a livello di povertà infantile e di disoccupazione femminile. Il documento dell’Oms sui determinanti fornisce dati e classifiche a 8 anni fa (purtroppo sicuramente peggiorati) e dà anche una serie di indicazioni divise in quattro grandi gruppi: Corso della vita, Società nel suo complesso, Macro livello (costi sociali, sviluppo sostenibile e salute), Sistemi (governance, priorità della salute pubblica, misure e obiettivi). Per ogni punto ci sono brevi ragionamenti su cosa dovremmo fare se fossimo civili come diciamo di essere. Si parla di “perpetuarsi di diseguaglianze evitabili”, di bambini in difficoltà, di occupazione, di anziani malati uccisi dalle diseguaglianze sociali (come è puntualmente accaduto col Covid), di strategie di protezione sociale, di generazioni future da salvaguardare adesso. A un certo punto c’è scritto: “Esclusione sociale, vulnerabilità, svantaggio: prendere l’iniziativa in modo da sviluppare nell’ambito della società sistemi e processi sostenibili, aggreganti e inclusivi, mirati soprattutto ai gruppi più colpiti da processi di esclusione”. Morrone mi guarda e allarga le braccia: “Chissà quanti di quelli che devono decidere hanno letto queste cose”.
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