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19 novembre 2025
Nel discorso conclusivo della VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, tenutasi a Roma il 7 e 8 novembre, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio – e principale regista dell’intera iniziativa – Alfredo Mantovano ha rilanciato una proposta già respinta dagli operatori nei gruppi preparatori: introdurre “percorsi terapeutici riabilitativi obbligatori per minori tossicodipendenti”, “con il consenso dei genitori”, per “dare una risposta alle famiglie disperate”.
Una proposta che richiama la stagione dei vecchi e vituperati riformatori minorili – chiusi nel 1988 – e che presenta più rischi che benefici.
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Mantovano, nelle sue conclusioni alla Conferenza, ha indicato l’intervento sui minori come una delle due priorità da mettere in agenda. L’altra riguarda l’ingresso diretto nelle comunità terapeutiche in casi di urgenza (ma cosa non è urgente in una persona dipendente?), bypassando i Ser.D, con la relativa possibilità di certificarne lo stato di addiction (dipendenza, ndr). Il vero problema però oggi non è la diagnosi né tanto meno l’accesso, ma lo sblocco delle richieste di inserimento: è la carenza di risorse, che da anni produce esasperanti liste d’attesa anche per i casi più gravi.
Se la si osserva isolandola dal quadro più ampio delle politiche governative degli ultimi anni (decreto Rave, decreto Caivano, abolizione della cannabis light, norme sulla sicurezza), l’esito della VII Conferenza non è stato soltanto negativo: ha avuto luci e ombre.
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A essere escluse dal dibattito sono state alcune questioni cruciali:
Queste assenze sono le ragioni che hanno portato alla nascita della Controconferenza, dove sono stati affrontati proprio i nodi esclusi dal confronto ufficiale.
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Le luci hanno riguardato soprattutto le proposte degli operatori dei Ser.D e degli enti accreditati del Terzo Settore (Ets). Per la prima volta dopo dodici anni, tranne la parentesi della ministra Fabiana Dadone che, durante gli ultimi mesi del Governo Draghi, ha indetto la VI Conferenza, professionisti ed esperti riuniti in otto tavoli di lavoro hanno prodotto analisi e suggerimenti concreti sulla tenuta dei servizi, oggi allo stremo per organici ridotti, risorse insufficienti, liste d’attesa tanto nei Ser.D quanto nelle comunità terapeutiche. Per quanto riguarda le risorse umane dei Ser.d è stato predisposto un provvedimento tampone, che consente di riaprire qualche concorso, dopo tanti anni di noncuranza.
Durante la Conferenza, le associazioni scientifiche hanno avanzato alcune richieste come:
I partecipanti hanno inoltre condiviso il principio di non abbandonare le persone tossicodipendenti al loro destino, anche quando non riescono o non vogliono smettere di usare sostanze stupefacenti. Sotto questo profilo è stato chiesto di rendere finalmente operativi i LEA (livelli essenziali di assistenza) sulla riduzione del danno, previsti dal 2017 e rimasti sulla carta in quasi tutte le Regioni.
Ma torniamo alle conclusioni di Mantovano, ossia alla proposta di percorsi di cura obbligatori per minori tossicodipendenti. I problemi che solleva sono diversi. Anzitutto, già esistono dispositivi per i minorenni con disturbo d’uso di sostanze e che al contempo sviluppano comportamenti altamente problematici all’interno del mondo familiare, che tengono conto delle situazioni di grave difficoltà. Già oggi il Tribunale per i minori può predisporre d’autorità, in base all’accertamento degli elementi raccolti dalle denunce dei genitori o dalla richiesta dei servizi psichiatrici, il collocamento del ragazzo o della ragazza in comunità. L’altro dispositivo è il Tso (Trattamento sanitario obbligatori, ndr), estendibile ai minorenni, con l’aggiunta di un passaggio col giudice tutelare.
In entrambe le situazioni, la presenza di un ente terzo, con competenze specifiche, assolve a funzioni di garanzia contro i possibili abusi quando si limita la libertà personale in una struttura chiusa deputata alla cura.
Proprio in quanto strumenti di eccezionalità (oggi anche per i costi, basti pensare ai bilanci di un piccolo Comune che, con un singolo inserimento in struttura per 12 mesi, spende la grande parte del budget a disposizione), di norma compete invece al sistema dei servizi socio-sanitari delle Asl e dei Comuni farsi carico sul territorio della gestione della problematica, spesso con risorse di personale e di servizio inadeguate. Il compito è duplice: con i minori si stabilisce un piano di cura per il disturbo d’uso di sostanze e si co-progettano le iniziative sociali utili a rimodulare un diverso stile di vita; con le famiglie si porta avanti un sostegno e un accompagnamento di medio-lungo periodo, in modo che non siano lasciate sole e possano essere aiutate nelle difficili decisioni da assumere nella gestione della quotidianità di un figlio altamente problematico. I risultati positivi non sono mai “certi”, soprattutto sul breve periodo, ma anche l’inserimento obbligatorio prolungato in strutture chiuse, al di là del contenimento forzato del primo periodo che può consentire alle famiglie di rifiatare rispetto allo stress quotidiano a cui sono sottoposte, rischia di produrre nel tempo risultati controproducenti anziché i benefici auspicati dalle migliori intenzioni.
La perdita di libertà con l’inserimento in struttura contro la propria volontà, per ragazzi ancora minorenni, dà luogo a un inevitabile vissuto di violenza subita e di ribellione. Il disturbo d’uso di sostanze si caratterizza a quell’età più come stile di abuso che non una dipendenza conclamata, saldamente instaurata. Il fatto che non si autoriconoscano come tossicodipendenti, contribuisce a irrigidire ed esasperare ulteriormente il carattere dicotomico del pensiero e del sentire adolescenziale, che tende a contrapporre bianco e nero, vittima e carnefice, proiettando sempre sugli altri la responsabilità e la “colpa” dei propri comportamenti e delle proprie scelte. Una struttura che priva della libertà intensifica i meccanismi psichici oppositivi, già difficili da trattare anche con le persone tossicodipendenti adulte, da lungo tempo provate dai danni causati dalla durata della malattia. Il rischio è un’escalation simmetrica con il risultato di precludere la costruzione di rapporti di fiducia, presupposto di ogni percorso di recupero. La comunità, per risultare terapeutica, richiede di essere liberamente e volontariamente scelta, giorno per giorno.
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