1 luglio 2024
Barriera di Milano, periferia nord-est di Torino. Un tempo l’ingresso sorvegliato per chi arrivava dal capoluogo lombardo. Oggi il confine si è spinto più in là, ma il quartiere rimane spazio di frontiera. Lo raccontano i graffiti sui muri, i palazzoni residenziali diventati dormitorio per i più poveri della città, i volti e le voci delle persone che calcano i marciapiedi, spesso giovani di origine straniera o anziani meridionali. È una mattina luminosa di maggio e noi stiamo citofonando a un cancello di via Pacini: l’ingresso del Molo 18, il Centro crisi del Gruppo Abele.
Il "Crisi" è la prima struttura residenziale in Piemonte e tra le prime in Italia pensata per ragazzi e ragazze tra i 18 e i 28 anni dipendenti da crack o nuove droghe. Secondo i dati del ministero della Salute, la richiesta di accesso ai servizi per questa forma di dipendenza sta crescendo molto negli ultimi anni, coprendo quasi il 40 per cento di tutti i nuovi ingressi. A bussare sono soprattutto persone tra i 20 e i 40 anni. Il crack è seducente e infame, chiunque può finirci dentro, e quando si vuole smettere non esiste alcuna molecola che ne contrasti il craving, ossia il desiderio fortissimo di farsi di nuovo. Il Crisi serve a questo.
Crack, la droga ninja che "finché non ti ammazza non la vedi"
Dietro al cancello c’è un cortiletto circondato da piante che separano l’isolato dai giardini di piazza Saragat, ultima fatica strappata dalle associazioni di quartiere all’amministrazione cittadina per trasformare un’area industriale abbandonata in un luogo di socialità. Ad accoglierci c’è Mauro Melluso, il responsabile della struttura. Psicologo e punto di riferimento per i ragazzi, è lui che ci ha proposto di trascorrere 24 ore dentro il centro. "È una settimana pesante – ci prepara –, abbiamo avuto tre ricoveri, tante ambulanze e stress. Molta fatica per noi operatori, figuratevi i ragazzi". Attraversiamo l’odore acre dei posacenere stracolmi appoggiati sui davanzali esterni delle finestre ed entriamo nel salone. C’è silenzio, odore di cucina e di disinfettante. Tre ragazzi sono chini su grandi fogli da disegno sotto l’occhio vigile di Sara, psicologa tirocinante. Mauro ci accompagna nel suo ufficio per fare due chiacchiere e ci invita a consegnare i telefoni, come fanno tutti gli ospiti. Acconsentiamo e d’improvviso il tempo si ferma.
"Il percorso al Crisi non è solo contenitivo, non dobbiamo rieducare nessuno. L’obiettivo finale, passando per il recupero dell’autostima, è l’autonomia".Mauro Melluso - responsabile Centro crisi
Nonostante le premesse l’atmosfera è distesa. Andrea, un’operatrice, ci accompagna nelle stanze. Corrono tutte lungo un unico corridoio e ogni porta ha scritto su un cartoncino il nome di un gruppo musicale o di un cantante: Imagine Dragons, Bob Marley, Nirvana, Queen, Sfera Ebbasta… Le porte non hanno chiavi, neppure i bagni interni. Le finestre, invece, sono sigillate con una rete di metallo. Il Crisi è pensato come un luogo schermato verso l’esterno, in cui prendersi una pausa dalla società e guardarsi dentro. Si entra su base volontaria e si rimane non solo per disintossicarsi, ma per capire chi si vuole essere. Le regole da rispettare sono poche e semplici: dentro niente droga, niente aggressività verso gli altri e gli operatori. "Il percorso al Crisi non è solo contenitivo, non dobbiamo rieducare nessuno – spiega Mauro –. Lavoriamo sulla motivazione intrinseca: raccontaci chi vuoi essere, perché vuoi smettere, e proviamo a capire insieme come arrivarci. L’obiettivo finale, passando per il recupero dell’autostima, è l’autonomia".
Adolescenti drogati di psicofarmaci e indifferenza
Incontriamo il primo gruppo di ragazzi e ragazze entrati al Crisi, i pionieri. Tutti tra i 21 e i 29 anni, in maggioranza maschi e mediamente scolarizzati. Tra loro ci sono anche un’ex promessa del calcio, un dj, un benzinaio, una ex impiegata. "Chi viene da noi, mandato dal Ser.d, ha fatto uso soprattutto di crack e cocaina. Qualcuno, più vicino agli ambienti delle feste e del clubbing, anche di ecstasy e ketamina. Hanno iniziato per caso, per sperimentare, e molti hanno continuato da soli, nascosti nella propria cameretta". Mauro ci presenta ai ragazzi.
Per primi conosciamo Andrea, Luca e Biagio. Ci mostrano "casa" loro, come è fatta e come funziona. "Se la luce è rossa – dice Biagio indicando una spia luminosa sopra alla porta d’ingresso – ti conviene essere dentro perché vuol dire che la porta è allarmata. Di solito la chiudiamo solo la notte". Andrea vuole capire cosa facciamo lì. Racconta che la notte prima del nostro ingresso hanno trovato Stefano, ultimo arrivato, che si aggirava nudo e sudato per i corridoi, in preda alle allucinazioni. "Dicono sia l’astinenza, ma io non ne ho mai viste così". Da qualche porta arrivano anche gli altri, Lorenzo, Alessia, Francesco. Manca poco al pranzo e a Biagio tocca il turno in cucina da solo. Non si scompone: cucinerà per tutti. Stefano, che doveva dargli una mano, non è ancora riuscito a mettersi in piedi. Compare solo quando il pranzo è finito e la sala riordinata. Ha la faccia stanca, gli hanno messo da parte un piatto di pasta. Lo salutano, gli chiedono come sta. Pacche sulle spalle, qualche abbraccio.
"Il primo obiettivo del loro percorso è una ri-alfabetizzazione emotiva: rientrare in contatto con se stessi"Andrea - operatrice
Francesca rientra in struttura accompagnata dai genitori, mentre Luca si prepara per uscire con un grosso pacco regalo tra le mani. Lo accompagnano ad assistere all’ecografia del suo secondo figlio e lui ha con sé una bambola per Aurora, la prima, che ha tre anni. Luca ne ha 23 e fino a pochi mesi fa lavorava come benzinaio a Mirafiori. Poi un episodio traumatico e in una settimana si è fumato tutti i soldi che aveva messo da parte. "Dopo volevo farla finita". Adesso vorrebbe tanto essere pronto a uscire prima della nascita del figlio: lo chiameranno Manuel. "Il primo obiettivo del loro percorso è una ri-alfabetizzazione emotiva: rientrare in contatto con se stessi". Andrea, l'operatrice, spiega quanto ragazze e ragazzi temano la noia: "Qui dentro fanno tantissime attività psicoeducative e sportive: core fit, calcetto, ping pong, pugilato, arrampicata, yoga. Abbiamo attività propedeutiche per la loro creatività: laboratori di pittura, fumetti, disegno. Ma non basta. Il vuoto li spaventa, è l’antitesi della pienezza della sostanza".
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Biagio ”rappa“ seduto a un tavolo su cui è montato uno stereo. Tiene un quaderno dove appunta le canzoni che scrive. Ce ne fa sentire qualcuna, dice che è il suo modo di sfogarsi. "Ero violento, ma ho imparato a gestire la rabbia". Ha 21 anni, è il più giovane di tutti, a 18 è stato qualche mese in carcere "perché ho fatto cose brutte". "Quando esco da qua voglio studiare per diventare un Oss (operatore socio-sanitario, ndr) – racconta –. Mi piace prendermi cura degli altri, l’ho scoperto grazie a mio cugino che ha una piccola disabilità, potrei anche lavorare in un centro come questo".
Biagio, il più giovane tra gli ospiti del Centro crisi, scrive canzoni rap. Ha un quaderno dove appunta i suoi testi. Ce ne legge qualcuno, permettendoci di pubblicarlo:
Vorrei una buona vita
Una dove non veder solo salita
Ma non è così che funziona
Paragona
Una che va tutta in discesa
Una che ti valorizza per l’attesa
Questa giornata è tesa
Perché devo tirare fuori tutto
Dei miei sentimenti me ne fotto
Devo guardare oltre
Sono un soldato pronto a morire sul proprio fronte
Pronto alla guerra
Non ho mai fatto discorsi terra terra
Ho sputato nel piatto in cui mangiavo
La rabbia era la mia gabbia
Ero uno schiavo
Mancavo
Di incentivo
Ma la mia anima è sempre stata attiva
Partiva
Per un viaggio a me sconosciuto
Mi sono compiaciuto
Per pochi passi
Sassolini nelle scarpe
Diventati massi
La paranoia espansa
Manipolazione da sostanza
Mi dicevo: “Non è mai abbastanza”
Suvvia, un po’ di creanza
Ripetevano
Pericolosi scrivevano di me
Chiedendomi il perché
Dei miei peccati
Implicati
Dei fatti miei
Mi chiedo chi sarei
Oggi
Se non avessi fatto quegli errori
I miei versi non sono mai stati idonei
Per questa gente
Ma chiedevo solo aiuto
Un salvagente
Perché non riuscivo a comprendere
Come girava sto mondo
E io da stupido guardavo solo lo sfondo
Poco alla volta i ragazzi prendono posto sui divani disposti a quadrato. Riusciamo a vederci in faccia. Mauro chiede a noi di raccontare chi siamo e perché siamo venuti al Crisi. "Volevamo conoscervi e sperimentare la quotidianità di questo centro". Ci ascoltano, fanno domande, chiedono informazioni sul nostro lavoro e su quello che si muove fuori dalla loro casa temporanea. Poi chi vuole si racconta, comincia Lorenzo: "Ho 26 anni e arrivo da un percorso terapeutico di quasi cinque anni. Sono cresciuto nei vicoli popolari del centro di Genova, in cui criminalità e consumo di sostanze sono ordinari. Sono stato una promessa del calcio, ma nel 2017 dopo tanti anni di strada ho iniziato una dipendenza da crack. Sono stato in galera più volte, soprattutto per rapina. Sono venuto qui spontaneamente, perché a gennaio, dopo tre anni e mezzo di astinenza totale, ho avuto una ricaduta molto impattante: in dieci giorni ho fatto i danni che di solito facevo in un anno". Lorenzo sta cercando casa, perché tra due settimane esce dal Crisi e inizia a lavorare: nel cassetto il progetto di una convivenza con la compagna, conosciuta in comunità. Vorrebbe abitare lontano dai luoghi di spaccio, "non tanto per i pusher, ma per chi si ferma a consumare nelle strade lì accanto. Meglio se non li vedo".
Cosa si è disposti a fare per una "roccia" lo sa benissimo anche Andrea. "Non sono mai riuscito a rimanere in un posto per tanto tempo, per il craving. Il massimo è stato quattro mesi, una volta sono ricaduto anche mentre ero in comunità", racconta. La sua lunga esperienza lo rende una sorta di Tripadvisor vivente delle strutture per tossicodipendenti: conosce quelle religiose, quelle miste, quelle piene di persone adulte in misura alternativa al carcere, quelle dove si lavora tutto il giorno, quelle dove dopo un mese ti ridanno il cellulare "quindi non parli praticamente più con nessuno e la voglia di droga sale sempre di più". Scherza volentieri: "Quando sono venuto qui mi sono detto, la comunità l’ho già fatta, la clinica l’ho già fatta, vediamo se il Centro crisi è la volta buona". In realtà è la seconda volta che prova anche qui, la prima è scappato dopo dieci giorni "per la questione del craving, se vogliamo così definirla: mi sono dovuto andare a fare". Questa volta però dice di sentirsi più motivato ed è orgoglioso di aver resistito già per due mesi, "questo è un posto speciale".
"Le comunità tradizionali propongono percorsi standardizzati per tutti. Qui invece l’approccio è individualizzato, si valuta di giorno in giorno, di settimana in settimana, com’è il rapporto con la sostanza e con la famiglia"
Chiude il giro Francesco, che ci ha già raccontato di qualche problema legato alla sua disforia di genere. Sfoggia delle unghie magnificamente smaltate a colori alterni e un orecchino a pendaglio. Proviene da una famiglia di musicisti, "il clarinetto suonato da mio padre è il suono della mia infanzia", ricorda. Attorno ai divani aggiunge che dopo questo percorso vorrebbe fare anche lui il conservatorio, per studiare elettronica. "Mi sono trasferito a Berlino a 21 anni, dove ho lavorato nel mondo del clubbing e delle feste. Lì è nato il mio poliabuso: non avevo una dipendenza fisica particolarmente forte, ma non riuscivo più a gestirmi". Ritiene illuminata la scelta del Ser.d di mandarlo in questa struttura, "da quello che raccontano i ragazzi, le comunità tradizionali sono più dure e legate a regole precise, con percorsi standardizzati per tutti. Qui invece l’approccio è individualizzato, si valuta di giorno in giorno, di settimana in settimana, com’è il rapporto con la sostanza e con la famiglia. Anche se non hai tutte le libertà, rimane una componente di autodeterminazione molto forte".
Biagio è seduto accanto a Francesco. Con il passare dei minuti ha progressivamente cambiato espressione. Muove la testa sempre meno, finisce per guardare fisso davanti a sé, il muro bianco. La discussione di gruppo è durata oltre due ore, si può fare una pausa. Appena Mauro dà il segnale tutti si alzano. Tutti tranne lui. Quando ci allontaniamo piange sulla spalla di un compagno, poi inizia a stare male. Si sdraia, ha forti dolori alla testa. Un pensiero lo tortura. "Un lutto", "un rimorso", ci sussurra qualcuno. Fino a poche ore fa scherzavamo insieme ascoltando le sue canzoni, adesso arriva un’ambulanza a portarlo via. Restiamo tutti a fumare in silenzio.
Arriva Domenico con un tappetino da yoga. Passa al Crisi una volta a settimana per proporre un’attività di meditazione. "Sono stato anch’io un forte consumatore di crack negli anni Novanta – racconta mentre riempiamo i piatti per la cena –. Capisco benissimo quello che stanno passando questi ragazzi. Io per smettere vent’anni fa ho dovuto tagliare i ponti con tutti: ho distrutto la scheda telefonica, in 24 ore ho lasciato casa e sono sparito. Non c’è altro modo, ma devi trovare la motivazione giusta, chiunque può farcela". Alessia lo fissa riconoscente, come se quelle parole volesse sentirle ripetere mille e mille volte ancora, fino a convincersene. Lei è arrivata da poco, dopo essere scappata da altre strutture, da tutte a dire la verità. "Mia madre è morta l’anno scorso e mio padre mi ha detto: o ti disintossichi o non ti voglio più vedere. Devo farcela per forza. Quando ci danno la terapia?". La terapia è il rituale che segue la cena. Arriva il buio fuori e al chiarore delle luci al neon della stanza dell’operatore alcuni, uno per volta, ricevono il farmaco che darà una mano a dormire, a gestire l’ansia, a stabilizzare l’umore, a resistere: la notte è il momento dei fantasmi e della solitudine. L’aria è elettrica, ogni turno da aspettare è un esercizio di pazienza. Le sale si svuotano, pochi guardano la tv, e mentre tutti si rintanano nelle stanze regna di nuovo il silenzio. Si accende la luce rossa, non si può più uscire.
Biagio è tornato. Lui e Alessia sono già in cucina, dove un thermos di caffè caldo chiama alla colazione. Sul tavolo in sala ci sono i succhi, il latte, i biscotti. Arrivano tutti alla spicciolata. Nell’altra sala, su un tavolo pieno di pennarelli e album per disegnare, compare un foglio nuovo, bianco. Qualcuno ha scritto sopra la parola FELICITÀ. E lo ha lasciato lì come un messaggio o, forse, una richiesta di aiuto.
Scopri il nostro numero sulla felicità
È venerdì mattina, Andrea è un po’ agitato perché alle due arriverà la madre per il loro percorso di terapia familiare. "Tutti i ragazzi hanno ancora rapporti con la famiglia – ci spiega Mauro, che risentiamo al mattino –. Ciò che pensa la famiglia di loro resta molto importante. I genitori a volte sono persino troppo presenti, anche in modo ambiguo: ne abbiamo conosciuto qualcuno che accompagnava il figlio a comprare le dosi pur di esercitare una qualche forma di controllo. Non a caso qui i percorsi terapeutici spesso coinvolgono anche loro".
La nostra permanenza sta finendo. Mentre i ragazzi si allenano in palestra con una personal trainer che viene a trovarli una volta a settimana, prepariamo le nostre borse. Staccarsi non è facile. Facciamo più volte il giro delle stanze con la sensazione di lasciare qualcosa, ma non troviamo nulla perché non si tratta di un oggetto. C’è ancora tempo per il pranzo, il caffè e l’ultima sigaretta insieme. Recuperiamo e accendiamo i cellulari e d’improvviso il tempo ricomincia a correre. Gli schermi si riempiono a cascata di messaggi non letti, di impegni da rispettare. "Andrea, ti restituiamo l’accendino, grazie di avercelo prestato". "Ma no, tenetelo per ricordo". Siamo alle battute finali, salutiamo tutti, ci abbracciamo. "Ci vediamo presto, mi raccomando, venite a trovarci in redazione". Sì, ci vediamo presto. Fuori.
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