5 marzo 2021
Chi mai l’avrà inventata questa sciocchezza di dividere il cielo a metà? Non è possibile spezzare qualcosa d’infinito, indecifrabile, irriducibile all’esperienza umana. Quanto fosse sciocco parlare di due metà del cielo, me l’ha confermato tanti anni fa l’incontro con Carla. Che si chiamava Carlo quando ci siamo visti la prima volta, ed era un sacerdote, il parroco di un piccolo borgo del Nord Italia. Carlo per tutta la vita aveva combattuto contro se stesso, contro i suoi istinti e desideri. Sapeva di essere una donna, eppure aveva il corpo di un uomo. Si era consacrato per fede sincera, e con fede sincera e generosa svolgeva il suo ministero, ma probabilmente in quel ruolo cercava anche uno status sociale, la sicurezza di non dover rispondere di fronte al mondo di certe inconfessabili pulsioni. Si sentiva però sempre senza pace, senza casa.
A un certo punto della vita, dopo aver rischiato di cedere alla disperazione, Carlo aveva voluto credere che sotto la vastità del cielo ci fosse un posto anche per lei: da qualche parte sarebbe stata amata da Dio e dagli uomini per quello che era. Quel posto lo trovò al Gruppo Abele. Nell’accoglierla e accompagnarla lungo il delicato percorso che avrebbe fatto di lei una donna anche nel corpo e all’anagrafe – non meno importante, questa riconosciuta identità sociale! – abbiamo sperimentato che persino le credenze più radicate possono essere spazzate via dalla ricchezza di forme in cui si manifesta l’esistenza. Come spesso accade, ciò che si diventa per scelta lo si incarna con maggiore intensità rispetto a ciò che ci si trova a essere per caso. Così Carla, fino alla fine dei suoi giorni, fu una campionessa di quelle che consideriamo le maggiori virtù femminili. Sensibile, intuitiva, creativa e spirituale. Addirittura materna. Senza mai del resto venire meno alla sua vocazione. Sulla sua lapide è scritto: "Carla, sacerdote per sempre".
Oggi vediamo purtroppo tante donne che si sentono invece condannate oppure elette a un ruolo stereotipato, e lo interpretano con rassegnazione oppure opportunismo, mortificandosi in ciascuno dei due casi
Oggi vediamo purtroppo tante donne che si sentono invece condannate oppure elette a un ruolo stereotipato, e lo interpretano con rassegnazione oppure opportunismo, mortificandosi in ciascuno dei due casi. Donne sottomesse ai partner fino al punto di subirne per anni la violenza. Donne che si caricano da sole, in famiglia, di ogni compito di cura. Donne tenute lontane dalle posizioni di responsabilità sul lavoro. Ma anche donne e ragazze che puntano tutto sulla bellezza, la seduzione, la capacità di compiacere la vanità maschile per ottenere vantaggi e favori.
Se di questa situazione siamo tutti complici, uomini e donne insieme, noi maschi esercitiamo indubbiamente un concorso di colpa maggiore. Siamo noi che abbiamo relegato per secoli le donne in una posizione subalterna: non l’eufemistica altra metà del cielo, ma un angolo quanto mai ristretto e scomodo della società. Il più disagevole da abitare, il più faticoso e meno appagante.
Le ragioni storiche e culturali di questa subalternità sono complesse e non sta certo a me spiegarle. Anche perché nella mia esperienza ho incontrato il femminile in una declinazione molto diversa. Sono cresciuto con una mamma autorevole e due meravigliose sorelle: il più piccolo della famiglia e l’unico maschio nei lunghi periodi di assenza del papà per lavoro: si può ben immaginare che non fossi io a comandare. Ho mosso i primi passi nell’impegno sociale insieme a coetanei di entrambi i sessi, e ammirato l’intelligenza e il pragmatismo con cui le volontarie affrontavano i problemi quotidiani. Ho trovato sempre in loro la sponda per superare i momenti di scoraggiamento, le tensioni senza fondamento, il dolore per i continui lutti che in certi periodi hanno segnato il nostro lavoro: i morti di droga, i morti di Aids, i morti di mafia. Oggi ascolto spesso voci femminili parlare per conto dei morti affamati, affogati o assiderati lungo le rotte disumane dell’immigrazione.
Noi maschi abbiamo la colpa maggiore per aver relegato per secoli le donne in una posizione subalterna
Ho conosciuto donne straordinarie, capaci di dedicare la vita intera agli altri non come sacrificio, ma come forma consapevole di realizzazione personale. Donne in grado di trasformare dolori soverchianti, come quello per la perdita di un figlio o di un genitore per mano criminale, in testimonianza, impegno, motore di cambiamento collettivo. Donne di intelligenza brillante, dedicate agli studi, alla teologia e alla politica come più alta forma di servizio al bene comune. Donne che dopo una vita di umiliazioni hanno saputo ribellarsi a chi le sfruttava: sulla strada, nei luoghi di lavoro o dentro le mura domestiche. Donne che addirittura hanno trovato la forza di allontanarsi dai contesti mafiosi e di denunciare le condotte illegali dei loro stessi famigliari, rischiando la vita pur di guadagnarne una nuova, pulita, per sé e per i propri figli. Non faccio nomi: sarebbero troppi. Ma spero che ciascuna di loro si riconosca in queste righe. Non è un caso del resto se anche questa rivista è diretta da una giovane donna competente e coraggiosa.
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Vorrei allora dire, con umiltà e rispetto, alle donne che leggeranno questo numero de lavialibera: non accontentatevi della vostra metà del cielo, perché il desiderio di dignità e giustizia non ha confini. Nella famiglia e nelle professioni, nello studio e nell’impegno, spaziate ovunque le vostre inclinazioni e le vostre speranze vi portino. Accettate le contraddizioni, riconoscetele e amatele in voi stesse e negli altri. Soprattutto, non temete di deludere le aspettative di chi vorrebbe ridurvi a un ruolo fasullo e limitato, solo perché ha paura del suo – e vostro e nostro – essere tutti semplicemente umani.
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