Frankie hi-nrg mc. Credit: Stefano Guindani
Frankie hi-nrg mc. Credit: Stefano Guindani

Frankie hi-nrg mc, la voce del rap impegnato

Nel 1992 con Fight da faida il rapper torinese prendeva una posizione netta contro le mafie. "Falcone e Borsellino hanno fatto quello che andava fatto. Il paradosso è che non può essere considerato rivoluzionario il rispetto delle regole"

Daniele Sanzone

Daniele SanzoneScrittore e voce della rock band di Scampia 'A67

17 maggio 2022

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"Eroi senza una terra / che combattono una guerra / tra la mafia e la camorra / Sodoma e Gomorra / Napoli e Palermo / succursali dell'inferno / divorate dall'interno". Esordiva così Francesco di Gesù, alias Frankie hi-nrg mc, nel febbraio del 1992. Fight da faida (Irma Records), considerata da molti la migliore canzone rap della storia della musica italiana, è il primo singolo del pioniere italiano del genere musicale nonché la prima vera presa di posizione contro le mafie della musica italiana. " All’epoca vivevo a Città di Castello e leggevo il settimanale Avvenimenti – racconta il rapper – le loro inchieste giornalistiche su massoneria, mafie e servizi deviati sono state fondamentali per capire cosa stesse accadendo in quel momento nel Paese". Una storia che il cantante ha poi raccontato nel suo primo libro, Faccio la mia cosa (Mondadori, 2019), un romanzo in cui intreccia la sua biografia con la storia dell’hip hop. Abbiamo incontrato Frankie per farci raccontare com’è nata Fight da faida, a trent’anni dall’uscita.

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Quando hai scritto questa canzone?
Un anno prima delle stragi, la notte del 21 giugno 1991. Ero di ritorno da una festa hip hop dove c’era gente che ballava, rappava e faceva graffiti. Sull’onda anomala di quella adrenalina, ho scritto il mio primo rap in italiano con rime un po’ più evolute. Prima scrivevo solo in inglese, cose semplici.

Cosa ti ha spinto a scrivere un brano su questo tema?
Nel cuore avevo e ho tuttora i Public Enemy, il gruppo rap che più di ogni altro ha coniugato stile ed energia con la protesta sociale e la critica politica. Loro sono stati i primi a utilizzare in maniera esplicita e inequivocabile il rap come mezzo di comunicazione per sensibilizzare il pubblico, non a caso lo stesso Chuck D definì il rap come " la Cnn dei poveri". Sono stati loro a ispirarmi.

Chi sono gli eroi che citi in Fight de faida?
La canzone si rivolge innanzitutto alle persone comuni, erano e sono loro gli eroi di cui parlo, provando a raccontare ciò che stava accadendo nell’indifferenza generale. Dopo la grande stagione delle ammazzatine si era consolidata una visione oleografica delle mafie, che le vedeva stanziate solidamente nei territori del meridione: la camorra in Campania, la mafia in Sicilia e, ultima, la ’ndrangheta in Calabria. Una visione che ancora oggi fatica a scomparire. Ricordo che nel 2009 a Milano, prima di salire sul palco della manifestazione contro le mafie organizzata dall’associazione Libera, ero con don Luigi Ciotti quando ci dissero che il sindaco, Letizia Moratti, non avrebbe partecipato al corteo perché riteneva assurda una manifestazione contro le mafie nel capoluogo lombardo, dove a suo dire la mafia non esisteva. Un’affermazione di grande superficialità, soprattutto perché pronunciata da una figura istituzionale così importante.

Ho trovato ispirazione ascoltano i Public Enemy, i primi a utilizzare in maniera esplicita e inequivocabile il rap come mezzo di comunicazione per sensibilizzare il pubblico

C’è una persona, in particolare, a cui hai pensato scrivendo la canzone?
L’ho idealmente dedicata al capitano dei carabinieri di Monreale, Mario D’Aleo. Una persona che ho conosciuto perché frequentava i miei cugini siciliani. Era un uomo di specchiata onestà e rettitudine umana e morale. È stato ammazzato dalla mafia perché incorruttibile.

Che ricordo hai di Capaci e via D’Amelio?
Un ricordo netto, chiaro. Quando morì Paolo Borsellino mi trovavo in studio a Città di Castello, insieme a Luca De Gennaro. Mia mamma telefonò e ci diede la notizia dell’attentato: sono di origini siciliane, la mia famiglia paterna è di Monreale. Capaci e via D’Amelio hanno letteralmente sfondato l’immaginario collettivo. Attentati di proporzioni titaniche, di stampo militare. Sembrava che ci si potesse aspettare qualsiasi cosa, che potessero usare bazooka contro le questure e i tribunali, che avessero un arsenale tale da dichiarare guerra allo Stato, che potessero prendere il potere, fare un golpe. La mafia in quel momento stava influenzando pesantemente la direzione nella quale sarebbe andata la democrazia italiana, come abbiamo scoperto dopo con la trattativa Stato-Mafia.

In Italia il gangsta rap è un fenomeno recente. Il fideismo cieco a questi valori orrendi altro non è che la ricerca di un punto fermo in una società che non riesce a darne

Cosa rappresentano per te Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?
Delle persone normali, come del resto don Pino Puglisi, Libero Grassi. Uomini che semplicemente hanno fatto quello che andava fatto. Il paradosso è che viene considerato rivoluzionario il rispetto delle regole, anche perché la rivoluzione è esattamente l’opposto, la trasgressione delle regole. In questo Paese chi rispetta le leggi, purtroppo, non è mai premiato. 

Sei stato anche il primo ad associare, in una rima, la parola Gomorra a Camorra
È un’assonanza regalata, un ready-made che sta lì a portata di rima.

Rispetto agli anni Novanta, nel rap di oggi si parla molto più di se stessi, dei sentimenti, dell’amore e della gelosia. Argomenti che all’epoca non si toccavano e chi lo faceva era considerato commerciale

Hai letto Gomorra?
Sì, il libro mi è piaciuto molto. L’ho letto con passione e, come sempre, credo sia migliore del film e della serie. Lo sguardo che Roberto Saviano mi ha offerto di quella dimensione è estremamente suggestivo e convincente, credo sia riuscito a essere divulgativo e narrativo al contempo.

E della serie cosa pensi? 
L’ho trovata notevole e per certi aspetti istruttiva, soprattutto per chi non abita quei luoghi. L’idea di entrare nelle case dei boss e di vedere come nasce una piazza di spaccio con la costruzione dei cancelli, dei tunnel, i pusher e le vedette è qualche cosa che difficilmente puoi capire solo leggendo. La fiction è un peep show, il problema di questa narrazione è che le forze del bene sembrano completamente escluse, gli unici protagonisti sono i malamente. Una scelta diversa, per esempio, rispetto a quella della serie Narcos, che nel raccontare l’epopea di Pablo Escobar e del narcotraffico messicano contestualizza e storicizza, restituendo la complessità della realtà grazie ai diversi punti di vista. In Gomorra, invece, questa complessità è solo interna a una cosca. L’identità di storia, luogo e persone rischia di rendere nulle le iniziative tese a migliorare Scampia, che resta il luogo in cui maggiormente si localizza il male della serie. Credo che la fiction finisca per disumanizzare quei luoghi.

Negli anni Novanta la musica era “impegnata”, non aveva paura di esporsi, era un’arma impropria per combattere ingiustizie e battaglie di ogni tipo e genere. Oggi, invece, sembra svuotata di senso e di significati e, addirittura, nel rap si assiste all’apologia del crimine. Come spieghi questo ribaltamento di fronte?
Il gangsta rap in America esiste da almeno trent’anni. A me non piaceva quello americano figuriamoci quello italiano: quando si adoperano le pistole non è mai un buon segno. Qui in Italia ci siamo arrivati anni dopo, fa un certo effetto perché gli autori di queste canzoni sono giovani e inneggiano a dei valori orrendi. Ma tutto ciò dovrebbe farci riflettere, il fideismo cieco e assoluto a questi valori spesso altro non è che la ricerca di un punto fermo in una società che non riesce a darne. È dura da accettare, ma la società in cui viviamo è poco affidabile. Le nuove generazioni non credono a questo sistema e, di conseguenza, si spostano su altri, anche se in molti casi ciò significa sacrificare parte delle proprie libertà. Credo che alla fine questi ragazzi, così come i pusher, ovvero le ultime ruote del carro criminale, siano anche loro delle vittime. 

Che rapporto hai con la scena rap di oggi?
L’ascolto con molta curiosità, la trovo costruttiva per capire la realtà che mi circonda, è un bel segno dei tempi. Rispetto agli anni Novanta, oggi si parla molto più di se stessi, dei sentimenti, dell’amore, della gelosia, all’epoca non si toccavano questi temi e chi lo faceva era considerato commerciale, come è capitato ai Sottotono. Il successo, diventare mainstream, era visto come un fallimento comunicativo, un allontanamento dalla propria emarginazione. Fare i soldi era una vergogna, sono stato il primo a firmare un contratto con una major e per questo fui accusato di tradimento. Addirittura una volta un fan mi tirò una sedia addosso per il solo fatto che Fight da faida iniziò a girare per le radio. L’integralismo di quegli anni è stato croce e delizia della scena rap italiana. 

Cos’è per te l’impegno?
Qualcosa di irrinunciabile. Sarà un mio limite, ma non vedo alternative,

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