I funerali di Luigi e Aurelio Luciani, due contadini innocenti uccisi a San Marco in Lamis il 9 agosto 2017
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Mafia garganica, è il tempo dei pentiti

Fino a qualche anno fa nel Gargano era difficile trovare un collaboratore di giustizia, oggi se ne contano sei. Nel 2022 hanno deciso di parlare i fratelli Quitadamo, considerati il braccio armato mattinatese del clan Romito-Lombardi-Ricucci-La Torre. Altri nomi potrebbero essere ancora riservati. Restano impenetrabili i rivali Li Bergolis

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoGiornalista

16 maggio 2022

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La mafia garganica non è più impenetrabile. Nella terra in cui fino a qualche anno fa era difficile trovare un collaboratore di giustizia, adesso se ne contano sei: solo da inizio 2022 a oggi sono stati ben tre gli uomini che hanno deciso di voltare le spalle ai clan. Altri nomi potrebbero essere ancora riservati. Si pentono, i boss del Gargano. E si pentono anche gli imprenditori che nelle maglie dei boss erano rimasti intrappolati, fino a diventare ingranaggi del motore criminale.

Nella terra in cui fino a qualche anno fa era difficile trovare un collaboratore di giustizia, adesso se ne contano sei: da inizio 2022 a oggi sono stati ben tre gli uomini che hanno deciso di voltare le spalle ai clan. Altri nomi potrebbero essere ancora riservati

Lo fanno perché dicono di voler cambiare vita, di temere la fine toccata a gran parte dei loro sodali. La stessa fine che prima o poi fanno quasi tutti i boss da queste parti: morire ammazzati. Si sentono con le spalle al muro, inchiodati dalle indagini, anche. Timori che però non sembrano essere avvertiti all’interno di ogni clan: tra chi ha scelto di parlare, fino ad ora non c’è alcun esponente dei Li Bergolis, la prima batteria della zona condannata per mafia, lo zoccolo duro dei Montanari che vanta legami con la 'ndrangheta. E forse non è un caso.

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I fratelli baffino, braccio armato del boss Romito a Mattinata

L’ultimo che ha detto di voler collaborare, qualche settimana fa, è stato Antonio Quitadamo, preceduto a gennaio dal fratello più giovane, Andrea. Conosciuti con il soprannome di baffino, i Quitadamo sono considerati il braccio armato del gruppo Romito-Lombardi-Ricucci-La Torre nel comune di Mattinata. È grazie a loro che l’area era diventata “terra di occupazione dell’associazione mafiosa”, scrive il giudice per le indagini preliminari Marco Galesi in Omnia nostra, ordinanza che documenta gli affari legali e illegali della mafia del Gargano. Un’occupazione che avveniva attraverso continue aggressioni e continue minacce, con cui i legittimi proprietari di terreni e villette venivano costretti alla fuga. Lo chiamavano metodo baffino e per i vertici dell’organizzazione criminale “lo fai alla baffino” era uno dei due modi per “acquistare le zone” nell’entroterra mattinatese. Farlo alla baffino significava rubare le mucche, ricorrere al pascolo abusivo e ostentare il proprio potere con gesti plateali. Come quello che nel 2016 ha per protagonista Andrea Quitadamo, entrato in una pizzeria impugnando un’accetta con l’obiettivo di colpire il proprietario di un terreno confinante al suo.

Aggressioni e minacce: lo chiamavano metodo baffino e per i vertici dell’organizzazione criminale era uno dei due metodi per “acquistare le zone” nell’entroterra di Mattinata

I baffino non erano però dei semplici esecutori. Antonio, in particolare, avrebbe avuto un ruolo decisionale nella consorteria. Anche se negli ultimi tempi si sentiva messo in disparte, non lo era nel 2014 quando un immobiliarista lo presentava a un cliente come il sindaco di Mattinata, perché “qui è così che funziona”. E non lo era nemmeno nel 2015, quando tutti i grandi nomi della criminalità organizzata garganica progettavano l’assalto, poi fallito, a un portavalori dell’istituto di sorveglianza Ivri, di passaggio tra Mattinata e Vieste. Il processo Ariete, ancora in corso, lo vede imputato per essere stato tra le menti del piano, fianco a fianco con Mario Luciano Romito, il capo dei capi ucciso a San Marco in Lamis il 9 agosto del 2017.

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Condannato per un’altra rapina ai danni della Bulgari, fatta nel 2016 a Bollate, in provincia di Milano, Antonio aveva anche tentato di evadere dal carcere di Foggia. Quitadamo senior aveva deciso di uscire di prigione da sé, insofferente e arrabbiato coi suoi legali che l’avevano convinto a costituirsi dopo un periodo di latitanza, promettendogli la libertà in tempi brevi. Una fuga che, se non fosse stata scoperta dai finanzieri di Foggia, sarebbe stata spettacolare: il programma prevedeva di segare le sbarre della cella con dei fili diamantati fatti arrivare nel penitenziario grazie a un drone.

A pentirsi anche un imprenditore accusato di aver fornito al clan Romito-Lombardi-Ricucci-La Torre la cornice legale attraverso cui espandere i propri affari

Il pentimento dei fratelli baffino potrebbe aiutare gli investigatori a individuare gli assassini di molti omicidi che hanno insanguinato la provincia di Foggia negli ultimi anni, la gran parte rimasti irrisolti. Ma non meno importante è la collaborazione, decisa a marzo, di Antonio La Selva. La Selva è uno dei titolari della Primo Pesca, una delle due aziende ittiche al centro dell’inchiesta Omnia nostra per aver fornito al clan Romito-Lombardi-Ricucci-La Torre la cornice legale attraverso cui espandere i propri affari fino a dominare il mercato del pesce di Mattinata. Per gli inquirenti, l'uomo era al completo servizio di Matteo Lombardi e del figlio Michele, al vertice dell’associazione criminale dopo la morte di Romito.

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Strage di San Marco in Lamis, momento di svolta 

Ettore Cardinali, magistrato della Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Bari, individua nella strage di San Marco in Lamis il momento di svolta che ha poi determinato i primi pentimenti. Quel 9 agosto del 2017 a morire non fu solo il boss Mario Luciano, le cui ambizioni su Vieste non erano andate giù allo storico clan rivale dei Li Bergolis, come confermato dal sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo Giuseppe Gatti  in un’intervista concessa a l’Immediato a dicembre, e come scritto da lavialibera a ottobre. Vittime incidentali dell’agguato furono due agricoltori innocenti, i fratelli Luigi e Aurelio Luciani. A oggi l’unico condannato in primo grado è stato Giovanni Caterino, ritenuto il basista dei killer e organico ai Li Bergolis, considerati i mandanti dell’assassinio.

“La strage ha acceso i riflettori su una zona che era stata abbandonata sia dall’opinione pubblica sia dallo Stato – spiega Cardinali –. L’impegno sociale e istituzionale ha avuto ripercussioni anche sulla vita interiore di alcuni soggetti che fino ad allora avevano avuto come unico riferimento culturale il contesto in cui erano nati e cresciuti”.

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Le prime condanne e la legislazione premiale promossa dal magistrato Giovanni Falcone, che prevede la concessione di una serie di benefici ai mafiosi che collaborano con la giustizia, hanno fatto il resto. I boss hanno cominciato a pentirsi e le loro dichiarazioni hanno già contribuito alla sentenza di primo grado che lo scorso ottobre ha condannato 22 persone coinvolte a vario titolo in un traffico di stupefacenti con epicentro il Gargano. Ad aprire la nuova fase è stato nel 2020 Giovanni Surano, giovane ritenuto vicino a Marco Raduano, a capo del gruppo di Vieste unito ai Romito. Ma solo a maggio del 2021, sempre dallo stesso gruppo, si è fatto avanti un soggetto di primo piano: Danilo Della Malva, classe 1986.

Della Malva, il pentito che ha corrotto l'ex gip De Benedictis

Danilo Della Malva non solo aveva un ruolo di responsabilità nella gestione delle piazze di spaccio della consorteria, ma era anche il punto di contatto tra Mattinata e Vieste, tra Mario Luciano Romito e Marco Raduano. Anche Della Malva, come Antonio e Andrea Quitadamo, aveva partecipato al tentato assalto al portavalori dell’Ivri. Aveva poi aiutato baffino senior durante la sua latitanza e, per sfuggire ai carabinieri, lui stesso si era rifugiato in Spagna, dove è stato catturato l’11 novembre del 2019. Della Malva, detto 'u meticcio, è pure il protagonista di due presunti casi di corruzione. Il primo risale al 2015 e ha per imputato un agente di polizia penitenziaria del carcere di Foggia, accusato di aver fatto entrare in istituto un telefono cellulare e dei crostacei destinati proprio a Della Malva e Raduano, all’epoca detenuti.

De Benedictis avrebbe permesso a Della Malva di passare dal carcere di Rebibbia agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico in cambio di 30mila euro, ricevuti tramite l'avvocato Chiariello

Il secondo ha contribuito alla condanna in primo grado a nove anni e otto mesi dell’ex giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis e l’ex avvocato penalista Giancarlo Chiariello. Nel 2020 De Benedictis avrebbe permesso a Della Malva di passare dal carcere di Rebibbia agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico in cambio di 30mila euro, ricevuti tramite Chiariello. A pochi mesi di distanza dal meticcio la strada della collaborazione di giustizia è stata imboccata anche da Orazio Lucio Coda che ha detto ai magistrati di aver fatto parte della banda di Raduano a partire dal 2016, detenendo il monopolio dell’erba e partecipando al commando armato.

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Il muro dei Li Bergolis

Elemento che accomuna tutti i neocollaboratori di giustizia della mafia garganica è l’appartenenza al clan Romito-Lombardi-Ricucci-La Torre e alla sua costola viestana con a capo Marco Raduano e Anthony Azzarone. Rimangono invece impenetrabili i rivali Li Bergolis, a Vieste legati alle famiglie Iannoli-Perna. Un tempo uniti, Romito e Li Bergolis sono diventati antagonisti a causa di un tradimento che nel 2009 ha portato alla sentenza Iscaro Saburo, con cui per la prima volta è stata riconosciuta l’associazione mafiosa a un clan del Gargano, quello dei Li Bergolis. Il processo aveva assolto i Romito, artefici della trappola con cui gli ex alleati erano stati spinti a confessare attentati, omicidi, ed estorsioni in favore dei carabinieri. Uno smacco che ha dato origine alla storica contrapposizione, da cui i Li Bergolis sembrano al momento uscire vincitori, nonostante tutta la loro cupola sia in carcere.

Tra chi ha scelto di parlare, fino ad ora non c’è alcun esponente dei Li Bergolis, il primo clan del Gargano condannato per mafia, lo zoccolo duro dei Montanari che vanta legami con la ‘ndrangheta. E forse non è un caso

Lo suggerisce l’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia (Dia) pubblicata ad aprile che fotografa la situazione sul Gargano da gennaio a giugno 2021. Relazione che evidenzia la capacità acquisita dai Montanari negli ultimi anni, quella di mimetizzare il loro carattere più cruento e di farsi impresa, fino a conquistare il controllo dei settori economici più importanti e redditizi. Centrale sarebbe anche l’attitudine a stringere alleanze, che avrebbe consentito ai Li Bergolis di avere un ruolo nel traffico degli stupefacenti pure al di fuori della Puglia, tanto che i calabresi li riconoscono come i “padroni dell’erba”. Proprio la saldatura con la ‘ndrangheta, in particolare con la cosca Pesce-Bellocco di Rosarno, darebbe forza ai Montanari, che la Dia definisce lo “zoccolo duro” della criminalità garganica. E tra loro nessuno si pente, almeno non ancora.

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