Giuseppe Gatti nel suo studio in Direzione nazionale antimafia
Giuseppe Gatti nel suo studio in Direzione nazionale antimafia

Il procuratore Gatti: "Foggia è come un figlio abbandonato. Si è adattata alla mafia"

Il capoluogo dauno è un microcosmo dove per anni hanno regnato le regole della criminalità e dell'intrallazzo. Per uscirne non serve la guerra, ma un'antimafia fatta di valori costituzionali

Elena Ciccarello

Elena CiccarelloDirettrice responsabile lavialibera

13 ottobre 2021

  • Condividi

Quarantacinque anni, in magistratura dal 1996, prima a Urbino poi a Foggia, oggi sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia (Dna), Giuseppe Gatti è considerato uno dei massimi conoscitori delle organizzazioni criminali della Capitanata. Lui, che è barese, le ha incontrate per la prima volta nel 2002, con il trasferimento alla procura di Foggia. L’impatto è stato traumatico, in sei mesi ha dovuto occuparsi di 14 omicidi. “Non erano omicidi normali: erano firmati, c'era un brand, che era quello della ferocia. I corpi erano sfregiati, massacrati. Oggetto di un odio che voleva colpire sia il corpo che la memoria della persona uccisa”.

Non se lo aspettava?
No, francamente, ed è stato motivo di crisi. Com'era possibile che io, pugliese, per di più magistrato, scoprissi solo allora una realtà che non avevo mai neppure immaginato? Quando sono arrivato in procura, inserito nel pool che si occupava di omicidi, droga ed estorsioni, mi sono trovato a raccogliere morti per l’intera provincia: nel centro del capoluogo, nelle campagne di Cerignola, nella foresta umbra, sui tornanti del Gargano. L’aspetto più sconvolgente era vedere lo strazio dei cadaveri. L’istituto di Medicina legale dell’università di Foggia, in una sua ricerca, ha evidenziato che tra le vittime della mafia garganica prevalgono lesioni da “colpo di grazia”, con l’esplosione in pieno volto di un colpo di fucile a canne mozze, attivato quasi a contatto con la vittima. E mentre assistevo a tutto questo mi rendevo conto che tutt'intorno regnava il silenzio, la minimizzazione, una sorta di accettazione supina di un sistema mafioso ormai radicato con cui bisognava scendere a patti.

“Com'era possibile che io, pugliese, per di più magistrato, scoprissi solo allora una realtà che non avevo mai neppure immaginato?”Giuseppe Gatti - sostituto procuratore della Dna

Come è possibile che un fenomeno criminale così importante sia maturato in tempi tanto recenti? 
Il territorio della Capitanata è stato per lungo tempo come un figlio abbandonato dai suoi genitori. E un figlio abbandonato che fa per sopravvivere? Si crea un suo mondo, una sorta di autarchia valoriale, culturale, ideologica. Nella solitudine possono maturare equilibri e codici di comportamento alternativi a quelli stabiliti dalla nostra Costituzione. Soprattutto, possono prendere il sopravvento gruppi criminali che si sostituiscono allo Stato. La loro però non è una sovranità democratica, ma di tipo dittatoriale, verticale ed egemonico. Nel foggiano le organizzazioni hanno penetrato profondamente il contesto sociale, economico e amministrativo generando una sorta di dipendenza da mafia: c’è bisogno del loro permesso per occupare una casa popolare, per recuperare un furto, per avere un posto di lavoro. La comunità si è adattata all’isolamento sviluppando questo bisogno di mafia. 

Bisogno di mafia significa complicità, non solo paura.
Inizialmente la criminalità organizzata foggiana si è imposta sul territorio attraverso una violenza ostentata, con l'obiettivo  di voler formare le coscienze, di far capire chi comandava. Cosa che a Bari, per esempio, non è mai avvenuta. Questa organizzazione ha messo le bombe, ha ucciso chi denunciava e lo ha fatto con il desiderio che ciò venisse registrato dalla comunità. Solo dopo, quando l'associazione mafiosa è stata consapevole del suo buon livello di affermazione, è iniziato il processo di avvicinamento tra mafie e società civile e si è passati da una situazione di soggiacenza a una di compiacente connivenza, in cui il sistema mafioso non viene subito ma accettato.

Foggia anni Novanta, Ciuffreda e gli altri delitti irrisolti

Dove avviene l’incontro tra mafia e società, chi dialoga con chi?
L’organizzazione mafiosa si avvale di una sua specifica componente, quella dei cosiddetti mediatori. Nella Società foggiana alcuni membri delle batterie svolgono una funzione di raccordo ed hanno il compito di tenere insieme i gruppi, per evitare che si arrivi ciclicamente alle guerre; queste sono le stesse persone che poi dialogano con il mondo della zona grigia, da cui ha spesso origine la cosiddetta borghesia mafiosa. Sono le colombe delle organizzazioni, solitamente, per le loro qualità diplomatiche, e sono incaricate di gestire la cassa. Spesso sono gli stessi professionisti e imprenditori ad andare a cercare questi personaggi, per ottenere l’agibilità mafiosa e le garanzie necessarie ai loro progetti. Ma sono anche le persone più a rischio. Le guerre di mafia a Foggia sono iniziate spesso con l'omicidio del cassiere. Oggi questa zona grigia sta crescendo in maniera preoccupante e tende a stabilizzare la sua relazione con i clan mafiosi. Questo trend è confermato anche dall'aumento delle interdittive antimafia: dal 9 agosto 2017 fino alla fine del 2020 abbiamo avuto oltre 67 interdittive antimafia, in passato non abbiamo mai avuto numeri come questi.

Interdittive antimafia, cosa sono e perché la Dia propone misure più leggere in vista dei fondi europei

L’aumento delle interdittive non è anche il risultato di una migliore azione di contrasto?
Forse, però a mio giudizio questi dati dicono qualcosa anche del fenomeno in sé. Pur senza averne l’intenzione, proprio l'azione di contrasto ha contribuito a un ripensamento del modello di mafia su cui investire. Oggi le organizzazioni criminali puntano meno sulla violenza e più sul consociativismo e sull'infiltrazione. Insomma, si sta passando da un modello di mafia militare a un modello di mafia degli affari.

Una partita giocata tutta a livello locale?
No, anzi. Conta anche ciò che accade nelle reti del narcotraffico internazionale. Lo smercio della marijuana e il ruolo assunto dalla criminalità albanese hanno avuto una proiezione diretta sulle coste garganiche e sulla Capitanata, cambiando anche il rapporto delle mafie foggiane con le altre mafie italiane più famose. Oggi i gruppi foggiani sono diventati i principali interlocutori dei cartelli albanesi e hanno ridotto la subalternità  alla camorra e alla ‘ndrangheta. Ma c'è di più. Dovendo gestire dinamiche e affari sempre più vasti e complessi le mafie foggiane sono state  stimolate a innovare l'assetto organizzativo, orientandosi sempre di più verso un modello consortile, che mette insieme le diverse articolazioni nel perseguimento di obiettivi comuni pur lasciando loro una significativa autonomia. Un modello simile a quello delle famiglie di 'ndrangheta. Questo è quanto emerge dalle più recenti operazioni antimafia.  

“Gli affari per lo smercio di marijuana con i cartelli albanesi hanno reso le mafie foggiane più forti e autonome da camorra e ‘ndrangheta”

Che tipo di resistenza hanno opposto, se l’hanno opposta, istituzioni e politica? 
I dati parlano da soli, nel foggiano ci sono cinque Comuni sciolti per mafia. L’ultimo, il capoluogo. Ma già in passato diverse inchieste hanno documentato una forte percezione della presenza mafiosa all'interno delle amministrazioni locali. Con l’inchiesta Piazza pulita per esempio, siamo nel 2009-2011, è emerso un forte condizionamento di municipalizzate e cooperative sociali. Per costringere il comune di Foggia a prorogare l'affidamento di un servizio pubblico nonostante non ci fossero i presupposti di legge, la criminalità organizzata foggiana cercò di imporre con la violenza il blocco della raccolta dei rifiuti cittadini. I camion della nettezza urbana dovettero essere scortati dalle gazzelle della polizia per poter raccogliere i rifiuti dai cassonetti.

Anche la magistratura è arrivata in ritardo. Né si può pensare che sia stata risparmiata del tutto dai meccanismi appena descritti.  
C'è stato un primo periodo in cui, anche all'interno della magistratura, si è fatto fatica a comprendere quello che stava accadendo e a sviluppare una strategia di contrasto adeguata. Questo ritardo lo stiamo ancora pagando. Penso però che questo sia anche fisiologico, perché in tutti i percorsi giudiziari di contrasto al fenomeno mafioso, c'è sempre una fase iniziale, più o meno lunga, in cui prevalgono negazionismo e sottovalutazione. Purtroppo non abbiamo avuto collaboratori di giustizia per molti anni. A Bari abbiamo oltre 100 collaboratori, a Foggia dal 2007 al 2018 non ne abbiamo avuto nessuno. Le indagini sono andate avanti senza questo preziosissimo strumento. Quindi non credo sia stata colpa di qualcuno, penso anzi che anche attraverso questi momenti di crisi si sia giunti alla consapevolezza di oggi. 

"A Bari ci sono oltre 100 pentiti, a Foggia dal 2007 al 2018 non ce n’è stato nessuno"

Parla spesso di un’antimafia “del noi”. Cosa intende?
Credo nella necessità di sviluppare un modello di investigazione fondato sulla cooperazione e sul coinvolgimento partecipato di tutti i soggetti coinvolti. Noi non facciamo la guerra alla mafia, la guerra è espressione di un modello verticale, violento, dittatoriale che la nostra Costituzione ha solennemente ripudiato e che caratterizza invece la logica mafiosa. Dobbiamo uscire fuori da questa dinamica e pensare invece che le mafie si contrastano attraverso l'affermazione di quei valori di libertà, uguaglianza e solidarietà che stanno alla base del modello di comunità disegnato dalla Costituzione. Se non liberiamo le realtà sociali dall'oppressione violenta della prevaricazione mafiosa offrendo una diversa possibilità di stare insieme, se contrastiamo le mafie solo mediante azioni repressive rinunciando a scardinare i suoi codici ideologici e culturali, non riusciremo a essere efficaci. Ecco perché serve il lavoro di tutti: gli organi inquirenti locali, nazionali e internazionali, le prefetture e le altre istituzioni pubbliche, la società civile, le scuole, le parrocchie e le associazioni, le famiglie. Questa è l'antimafia del Noi. 

Mafia foggiana, i vescovi della Capitanata: "Giustizia per la nostra terra"

In questo modello inclusivo immagina di recuperare anche alcuni ex mafiosi?
Ci credo molto, sarebbe frustrante se non esistesse questa prospettiva. È il portato naturale di un’idea di antimafia ispirata ai codici costituzionali. I mafiosi sono persone che hanno fatto scelte sbagliate, ma anche spesso legate a storie complicate. Le prime collaborazioni che stiamo registrando sono un segnale importantissimo del valore di un percorso avviato. Ma il cambiamento deve essere vero e deve generare una dissociazione che sia effettiva e radicale.

Nell'elenco dei soggetti citati come parte del “noi” lei non inserisce la politica. Eppure per fare quel che dice c'è bisogno anche di buoni decisori pubblici.
Certamente. Ma la politica riflette sempre il territorio e il suo ambiente. Bisogna costruire prima di tutto il senso di comunità e risvegliare la coscienza sociale.

Da lavialibera n°10 2021

  • Condividi

La rivista

2024 - numero 25

African dream

Ambiente, diritti, geopolitica. C'è un nuovo protagonista sulla scena internazionale

African dream
Vedi tutti i numeri

La newsletter de lavialibera

Ogni sabato la raccolta degli articoli della settimana, per non perdere neanche una notizia. 

Ogni prima domenica del mese un approfondimento speciale, per saperne di più e stupire gli amici al bar