13 ottobre 2021
C’è una parola che racconta Foggia meglio di qualunque altra ed è abitudine, abbetudene in foggiano. È il titolo di una poesia dialettale di Gianni Ruggiero che racconta l’adattamento alla sofferenza. Si comincia con un inciampo leggero, improvviso, all’inizio quasi impercettibile: ‘na bella matìne te duscite/e sinde nu delore sòpe ‘o pìde, una bella mattina ti svegli e senti un dolore al piede, piccolo, minuto, che va via presto e non ci pensi più. Invece il dolore torna. E ogni volta si presenta più insistente, intenso, prolungato. Diventa talmente familiare, nel suo tornare, che alla fine ti abitui, ci fai il callo. Tu e il dolore diventate una cosa sola, tu e ‘u delore addevendate ùna cose. Ti convinci che vivere così sia un vivere normale, perché attorno a te trovi solo quello, e non te ne importa più nulla.
L’abbetudene a Foggia è il bisogno di mafia che è lievitato negli ultimi cinquant’anni fino a diventare ordine normale delle cose. È la mano sulla spalla che ti serve per mandare avanti un’azienda, per ottenere una casa popolare, per prendere la patente senza aver mai sostenuto un esame. È il sospetto del così fan tutti che, giorno dopo giorno, ti rende accettabile dover chiedere una raccomandazione pure per ottenere il rinnovo della carta d’identità.
L’abitudine è l’assuefazione alla scomparsa delle fontanelle per l’acqua potabile, sparite dalle strade negli ultimi vent’anni senza che nessuno se ne accorgesse, mentre lo slogan dell’Acquedotto pugliese, trionfante su uno dei palazzi storici più belli del centro, continua a recitare “acqua, bene comune”. È la stoica pazienza di accettare che il Palazzo di giustizia abbia i condizionatori fuori uso mentre il sole arrostisce le strade a 42 gradi all’ombra e l’unica soluzione diventa rimandare le udienze a tempi migliori. È quell’economia del pomodoro che pare non reggersi in piedi se non ha più schiavi da sfruttare. È la battuta, che passa di bocca in bocca, secondo cui per ogni palazzo che si costruisce in città, due piani vengono aggiunti per darli alla mafia. Se sia vera la diceria, non ha più importanza.
Acqua pubblica, dieci anni di promesse mancate
L’abitudine al malfunzionamento, ai clientelismi e alla legge del più forte impastano di rassegnazione e paura la quotidianità di Foggia da anni. È cresciuta sugli omicidi insoluti, sulle risposte non date e sulle speranze sospese, lasciando una minoranza di non arresi ai margini della vita cittadina, spesso impotenti. Il loro tempo è ora. Lo scioglimento del Comune per mafia di questa estate e, ancora prima, il rafforzamento dei presidi istituzionali sul territorio, offrono possibilità inedite per la città e questi luoghi: le nuove indagini e la gestione commissariale potrebbero restituire nei prossimi anni una presenza criminale ridimensionata e una macchina amministrativa meno collusa e porosa. È ora il momento per innescare un processo alla rovescia. Una mattina ti svegli e trovi un tombino riparato. Poi un ufficio funzionante e una gara d’appalto regolare. Un parco per bambini pieno di giochi e un progetto per il reinserimento lavorativo dei detenuti. Ci vogliono tempo, risorse e pazienza. Ma poi magari si cambia davvero.
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