San Marco in Lamis: omicidio Luciani, la strage annunciata

Il 9 agosto 2017, a San Marco in Lamis, un commando uccide il boss Mario Luciano Romito. Nell'agguato muoiono anche i fratelli Luciani, due agricoltori innocenti. Pochi giorni prima l'allora procuratore di Bari aveva chiesto l'intervento dello Stato, parlando di "lunga scia di sangue"

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoGiornalista

13 ottobre 2021

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SAN MARCO IN LAMIS - Michele Merla, sindaco di San Marco in Lamis, gliel’aveva suggerito più volte di cambiare furgoncino. Aurelio Luciani abitava di fronte casa sua e il Fiorino bianco Fiat che usava insieme al fratello Luigi per il lavoro nei campi era simile a quello di un altro sammarchese: Luigi Ferro, detto Gino di Brancia, proprietario di una masseria vicina ai terreni dei Luciani. In ogni cittadina del Gargano la mafia ha i suoi appigli. Ferro risulta legato al boss Mario Luciano Romito, tanto che il 9 agosto 2017 in molti pensarono fosse suo il Fiorino bianco crivellato di colpi trovato davanti la vecchia stazione del paese a poca distanza da un maggiolone con dentro i cadaveri di Romito e suo cognato, Matteo De Palma. Invece era dei Luciani. Luigi e Aurelio morirono a 47 e 43 anni, facevano gli agricoltori e con la mafia non c’entravano niente.

Su Romito pendevano più sentenze di morte. A rancori vecchi si erano aggiunti interessi nuovi: il controllo di Vieste

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Vecchi rancori

Secondo gli investigatori, quella mattina d’estate Mario Luciano Romito era diretto alla masseria di Ferro per parlare d’affari e su di lui pendevano più sentenze di morte. La prima era roba vecchia. Un tradimento che nel 2009 ha portato alla sentenza Iscaro Saburo, con cui per la prima volta è stata riconosciuta l’associazione mafiosa ai clan del Gargano. Mario Luciano e il fratello Franco avevano organizzato una trappola voltando le spalle agli storici soci con cui dagli anni Settanta si spartivano ogni affare tra Manfredonia, Monte Sant’Angelo e Mattinata: i montanari Franco e Armando Li Bergolis. Il 3 dicembre 2003 avevano convocato un vertice in una masseria a San Giovanni Rotondo, la Orti Frenti: un summit che sulla carta doveva servire a risolvere gli screzi dei Li Bergolis con gli altri alleati, Matteo e Antonio Lombardi, ma in pratica aveva spinto le due famiglie a confessare omicidi, attentati, estorsioni e traffici di droga in favore dei carabinieri che, d’accordo con i Romito, avevano riempito il posto di microspie. 

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Nel processo che era seguito Mario Luciano e Franco Romito erano stati assolti e ne avevano approfittato per riorganizzarsi con il cugino Francesco Pio Gentile, deus ex machina di Mattinata, Matteo Lombardi, Pasquale Ricucci e Pietro La Torre. Franco e Armando Li Bergolis, invece, erano stati condannati a decenni di carcere per mafia, smacco che non hanno mai perdonato.

Nuovi interessi: il controllo di Vieste

Ai vecchi rancori si erano, poi, affiancati nuovi interessi. Sia i Li Bergolis sia i Romito volevano il controllo di Vieste approfittando di un vuoto di potere che si era venuto a creare nel 2015 con l’uccisione del luogotenente della città, il boss Angelo Notarangelo, spiega  Ettore Cardinali, magistrato della Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Bari. Il clan, prima legato solo ai montanari, si era scisso in due fazioni: una guidata da Girolamo Perna, che aveva la benedizione dei Li Bergolis, e l’altra facente capo a Marco Raduano, appoggiato dai Romito. Punto di contatto tra Raduano e Mario Luciano era un ragazzo che, come Luigi Ferro, nel 2015 avrebbe fatto compagnia a Romito nell’organizzazione di una tentata rapina e che l’ordinanza Neve di marzo dipinge come il gestore delle piazze di spaccio del gruppo: Danilo Della Malva. Mentre i Perna erano uniti ai Li Bergolis da Enzo Miucci, “u criatur”, pupillo e parente di Franco di cui aveva favorito la latitanza durata oltre un anno. 

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Affacciata sul mare, Vieste è un luogo chiave per l’economia legale e illegale del Gargano: ogni anno centinaia di migliaia di turisti affollano i suoi lidi, dormono nei suoi alberghi, mangiano nei suoi ristoranti, ballano nelle sue discoteche, e comprano droga. Quando lo scirocco non ingombra l’orizzonte, dalle sue spiagge si vedono le coste dell’Albania da dove arriva la maggior parte delle sostanze stupefacenti. Della Malva, uno dei pochi che di recente hanno deciso di collaborare con la giustizia, ha dichiarato che solo grazie alla cocaina riusciva a guadagnare diecimila euro al mese, cui andrebbero sommati i ricavi provenienti da hashish e marijuana.

Non sappiamo se i Luciani abbiano visto troppo o siano stati scambiati per qualcun altro. I killer sono ignoti

La lunga scia di sangue

Nel 2017 gli equilibri tra Perna e Raduano, e quindi tra i Li Bergolis e i Romito, erano in via di definizione e, mentre Mario Luciano era in prigione per scontare una condanna di un anno per rapina, in riva al mare come tra le montagne della provincia di Foggia ci si sparava. Il 21 marzo 2017 alle porte di Monte Sant’Angelo Matteo Lombardi dei Romito faceva fuori Giuseppe Silvestri, dei Li Bergolis. A Vieste, tra gli altri, perdevano la vita Vincenzo Vescera (clan Raduano-Romito), giustiziato con sette colpi di pistola il 16 gennaio, e Omar Trotta (clan Perna-Li Bergolis), ucciso il 27 luglio nel suo ristorante con tre colpi al torace e uno alla testa, mentre teneva in braccio la figlia di pochi mesi appena. «Una lunga scia di sangue», l’aveva definita l’allora procuratore di Bari Giuseppe Volpe in una lettera spedita poche settimane prima dell’omicidio Luciani a tutti i vertici della Repubblica, di cui chiedeva l’intervento. «Lo Stato – scriveva – deve essere presente anche a Foggia e nella sua provincia». Il 20 giugno 2017 ad Apricena, Comune limitrofo a San Marco in Lamis, un commando di almeno tre persone armate di fucile, pistola e kalashnikov assassinava Antonio Petrella e Antonio Ferrelli, cognato – quest’ultimo – di Salvatore Di Summa, boss dell’Alto Tavoliere che, secondo fonti investigative de lavialibera, era vicino ai Li Bergolis-Romito prima della scissione e poi pencolava tra i due poli. Cinquanta giorni dopo, nelle campagne di San Marco, un commando di almeno tre persone armate di fucile, pistola e kalashnikov eliminava Mario Luciano Romito, il cognato Matteo De Palma, Luigi e Aurelio Luciani. 

Senza colpevoli

La mattina del 9 agosto 2017 il termometro in Puglia segnava 40 gradi. Mario Luciano e Matteo avevano fatto colazione nel bar Silver di Mattinata prima di imboccare la Pedegarganica, una sottile lingua di strada che collega la costa ai paesi montani. Il sole faceva lucciolare il grano di una terra che con le sue doline e i suoi boschi sembra fatta apposta per nascondere: negli ultimi anni piantagioni di cannabis, soprattutto. Romito era fuori dal carcere dal 31 luglio e voleva rimettersi al centro di tutti gli affari del Gargano, forse ignorando che nel frattempo “u criatur”, diventato reggente dei Li Bergolis dopo la carcerazione di Franco, aveva maturato la stessa ambizione. L’8 agosto aveva parlato al telefono con Francesco Pio Gentile, dandogli appuntamento nel posto in cui da giorni era in corso la riunione dei vertici del clan. Era lì che stava andando quando i killer incappucciati l’hanno raggiunto.

“Ora parlare di mafia non è più tabù. Ma nessuno denuncia”

Aurelio Luciani aveva lasciato casa all’alba, socchiudendo la porta per non svegliare la moglie, Marianna Ciavarella, al sesto mese di gravidanza. Aspettavano una bimba, sarebbe stata la prima femmina in una famiglia di maschi e non vedeva l’ora nascesse. Era stata un’estate particolarmente fortunata e felice per lui e il fratello Luigi. Il raccolto era andato bene e per la prima volta dopo anni si sarebbero concessi una vacanza ad agosto. Si trattava di resistere solo qualche altro giorno e poi avrebbero potuto riposare. Questo era il piano prima che, sulla strada per Apricena, incrociassero gli assassini. 

I fratelli Luciani sono stati inseguiti e uccisi dove ora c’è un grande tau francescano a ricordare la strage. Luigi è morto nel Fiorino bianco. Aurelio aveva provato a scappare e l’hanno trovato sull’erba, faccia a terra. Non sappiamo se abbiano visto troppo o se siano stati scambiati per qualcun altro, ad esempio Ferro. Non conosciamo nemmeno l’identità degli assassini. L’unico condannato, con sentenza di primo grado, è Giovanni Caterino, considerato organico ai Li Bergolis e basista del gruppo: avrebbe più volte seguito il maggiolone di Romito da Manfredonia fino al luogo dell’agguato, aiutando il commando. I giudici hanno deciso l’ergastolo. Una parziale verità per Marianna e la cognata, Arcangela Petrucci, che oggi amano definirsi «cittadine consapevoli». Anche se la consapevolezza l’hanno pagata a caro prezzo: è la targhetta di un citofono che conserva il nome di un morto, sono le lacrime che evaporano negli occhi e il fumo e il caldo che raschiano la gola, asciugando le parole. «Non è mancata la solidarietà, l’attenzione delle forze dell’ordine è aumentata e ora in Capitanata tutti sanno che c’è la mafia – dicono –. Parlarne non è più tabù, ma non si va oltre. Nessuno denuncia, nessuno si ribella. Una rassegnazione peggiore dell’omertà».

Aggiornamento: Giovanni Caterino è stato il basista della strage di San Marco in Lamis, in cui il 9 agosto del 2017 morirono i fratelli Luigi e Aurelio Luciani, due agricoltori innocenti. Lo ha stabilito la corte di Appello di Bari confermando per Caterino la sentenza emessa in primo grado dal tribunale di Foggia: l'ergastolo. Non solo, la corte ha previsto che per 18 mesi Caterino sia sottoposto a isolamento diurno. "Ora speriamo che racconti la verità su quel giorno", commenta a lavialibera Arcangela Luciani, vedova di Luigi. Soddisfatto l'avvocato di Arcangela e di Marianna Luciani, nonché dei rispettivi figli, Luciano Masullo, "una soddisfazione doppia –  spiega –, sul piano professionale e umano: Luigi e Aurelio li conoscevo bene. Certo, non possiamo dirci felici. Oggi Arcangela e Marianna hanno avuto giustizia, ma non c'era il sorriso sul loro volto: non potranno avere indietro i loro mariti. La procura ha fatto un grande lavoro. Ora aspettiamo le motivazioni, che saranno depositate entro 90 giorni, e poi l'eventuale ricorso in Cassazione, per cui rimango cauto". 

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