21 maggio 2020
Si scrive whistleblowing, si legge grossomodo come “wis-uh?l-bloh-uin”, e, a dispetto di un nome ostico, ha a che vedere con una molteplicità di situazioni nelle quali può malauguratamente capitare a chiunque di ritrovarsi sul proprio luogo di lavoro.
Che cosa faremmo infatti se trovassimo, nella stampante condivisa dell’ufficio, una copia di un documento riservatissimo a cui solo noi abbiamo accesso dal nostro computer di lavoro a cui si accede con credenziali segrete? Che cosa se venissimo a conoscenza di incontri non opportuni nella stanza del nostro capo tra lui e quel gruppo economico la cui presenza comporta un enorme conflitto di interesse su un appalto? O se un utente ci raccontasse, con prove certe, di richieste inopportune di denaro da parte di altri colleghi? O ancora di concorsi in costruzione, fatti su misura per far vincere quella specifica persona, in barba ad ogni criterio di merito o di diritto? O che qualcosa, proprio nel nostro ufficio, non stia funzionando in ciò che la gestione di risorse pubbliche?
Sono, questi, episodi e vissuti più frequenti di quanto si crede, e che comportano, per la persona che li vive, di trovarsi come ad un bivio: far finta di nulla o scegliere di far emergere la questione tramite una segnalazione. Un bivio che nessuno si augura, che a volte comporta come una sorta di “risveglio” da quella che si considerava una normalità serena. In casi remoti, sono prassi così consolidate da non destare più stupore e reazione, almeno fino a quando non ci si ritrova a balbettare un “facevano tutti così” ai magistrati, e al non avere invece parole da dire ai propri figli.
Che fare? Che faremmo?
Fino alla legge 190 del 2012, ossia per oltre centocinquanta anni della nostra storia nazionale, non avremmo potuto fare nulla di diverso dalla denuncia. Ma denunciare significa un processo, una battaglia legale magari estenuante, un coinvolgimento squilibrato nella questione o un essere parte lesa, la sola logica della pena e dell’illecito, soprattutto un impatto che si verifica solo a distanza di (molti) anni, qualora avvenga.
Ecco perché, in tutto il mondo, per fronteggiare queste situazioni è stata elaborata una figura diversa, ossia quella del whistleblower. Il significato letterale è “suonatore di fischietto”, quello concreto indica colei o colui che riporta una situazione di opacità a cui assiste sul luogo di lavoro prima che sia davvero corruzione, venendo tutelato nella sua riservatezza. Che significa garantire la riservatezza a queste persone? Che la loro identità, nota a chi raccoglie la segnalazione (e la legge prevede ad oggi due canali: uno verso il responsabile di prevenzione della corruzione interno al proprio ente, uno all’Autorità nazionale anticorruzione, l'Anac), non si riporti ad altri, meno che mai alle parti coinvolte. La logica di questa riservatezza sta nel fatto che non è importante chi segnala, ma l’oggetto della segnalazione, che va subito gestita per non degenerare in malaffare o malamministrazione.
Chiamiamo quest’istituto ancora con gli inglesi, whistleblowing, perché si fatica ad avere una traduzione efficace in italiano, e in diversi dicono che è perché ci manca la “casella di significato”: ossia che la nostra cultura non è capace di fotografare il fenomeno. Ma è spesso una cattiva scusa: abbiamo inserito nel nostro vocabolario e nella nostra prassi talmente tanti concetti nuovi senza entrare nel panico, e non si comprende perché a quest’istituto si risponde che non è contemplabile dall’ordinamento nonostante una norma o, persino, dal dna degli italiani. Può entrare quindi nel nostro “sangue” anche il riconoscimento, culturale e giuridico, dei segnalanti di opacità.
Non a caso la stessa Europa, credendo alla replicabilità dell’istituto su scala ampia e pur su incoraggiamento di moltissime sigle civiche che a livello comunitario hanno spinto in tal senso, obbligherà tutti gli stati dell’Unione europea a uniformare gli standard sul tema entro il dicembre 2021, grazie alla direttiva 2019/1937.
Più che interrogarci sulle parole, per capire chi è un whistleblower proviamo a guardare all’esperienza internazionale e, prima ancora, a metterci nelle vesti di chi si trova a quel bivio. Per comprendere cioè l’istituto occorre fare proprie due prospettive: la centralità di chi segnala e il fatto che stiamo parlando di prevenzione della corruzione.
Mettere al centro il segnalante significa garantire un sistema di segnalazione efficace: non stiamo parlando (solo) di segnalazioni o dati da produrre, perché non funzioniamo (almeno non tutti noi) come algoritmi matematici: persino le persone più lucide possono trovarsi travolte in uno scenario del genere. Che cosa desidereremmo quindi, qualora non ci bastasse il “mi faccio i fatti miei e campo cento anni”?
Magari vorremmo in prima battuta parlarne con qualcuno che non sia della famiglia (per non aggiungere preoccupazioni) o dell’ufficio (perché non si sa mai in chi confidare). Qualcuno che ci accompagni a ragionare sul che stia succedendo, che si indichi un modo per riportare la cosa senza dover per forza denunciare, che aiuti a ordinare i pensieri, i tempi delle cose. Insomma, degli sportelli di informazione e supporto, che Libera ha già provato a garantire dal 2019, rinnovando il suo servizio di ascolto facendolo evolvere in “Linea libera” (800-582727), un servizio telefonico finalizzato al sostegno anche di questa categoria di persone. Questi servizi, sebbene non ostracizzati, ancora non sono contemplati nella normativa italiana, che quindi non ne disegna caratteristiche e standard di qualità.
La seconda aspettativa è desiderare di non correre alcun rischio durante la segnalazione, che coincide in tre cose: nel comprendere se si rientra nella categoria dei segnalanti, nella necessità di non far emergere il proprio nome, nell’utilizzare canali digitali di segnalazione inattaccabili sul lato privacy. Ogni minima incertezza è un enorme disincentivo alla segnalazione. Ecco perché vanno garantiti canali digitali affidabili, così come è fondamentale ridurre ia molteplicità di interpretazioni sul tema da parte di esperti e competenti in materia. Va infine tenuto in conto che in Italia non riusciamo ad oggi a far accedere all’istituto le fasce più deboli del mondo del lavoro o ad esso associati (come precari, ricercatori, volontari, tirocinanti) che sono spesso quelle che più facilmente sono vittime o testimoni di logiche opache.
La terza aspettativa è avere massime garanzie qualora ci si trovi a subire ritorsioni post segnalazione, nella sciagurata ipotesi che si venga in qualche modo identificati: se ad esempio ci si ritrovi demansionati o mobbizzati proprio a seguito e a causa di una segnalazione, il sistema dovrebbe obbligare il datore di lavoro a dimostrare che tale riduzione di incarico o di paga non dipenda appunto dall’aver segnalato.
Non a caso queste tre linee sono contemplate, assieme ad altri pur utili elementi, nella direttiva europea 2019/1937.
Quando si ragiona di whistleblowing occorrerebbe sempre tenere presente che stiamo parlando di prevenzione. In concreto, significa distinguere per bene il whistleblowing dalla denuncia, perché sono davvero due logiche diverse: a una segnalazione del whistleblower devono infatti corrispondere non un processo, ma misure organizzative finalizzate a un cambio, strutturale e culturale, nell’azienda o nell’ente, affinché alla corruzione non si arrivi mai e si concluda il comportamento opaco riscontrato.
Sarà quindi necessario orientare la formazione interna agli enti verso la simulazione di questo tipo di condotte, al fine di rendere la segnalazione una possibilità al pari di un cambiamento organizzativo.
Essendo la realtà più complessa di così, una normativa efficace dovrà essere armonica, magari anche prevedendo una correlazione, certamente residuale, con la figura del testimone di giustizia, qualora “spunti” il mafioso, nello scenario che va a segnalarsi.
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