30 maggio 2020
La notizia della liberazione di Silvia mi ha sollevata tantissimo, ma le reazioni che leggevo nei giorni successivi mi hanno colpita profondamente e mi hanno riportata con la mente al mio viaggio nell’Africa dei mille chiaroscuri di qualche anno fa.
Quando decidi di partire sei terrorizzata, a vent’anni ti trovi a dire ai tuoi: “Non vado in Erasmus, ma in Kenya per il tirocinio”. Parti perché vuoi imparare, comprendere e capire quello che sta succedendo nel mondo che ti circonda e perché quello che studi sui libri spesso non è abbastanza. Proprio per questo un gruppo di ex studenti in Diritti umani dell'università di Padova ha deciso di creare Karibu Africa Onlus, un'associazione che organizza tirocini formativi per gli studenti per “studiare l’Africa in Africa”, senza filtri e nella maniera più oggettiva possibile.
Era una fredda mattina di gennaio quando a lezione il prof ci anticipò che nella parte finale della lezione sarebbe arrivata una proposta per i nostri tirocini proprio da quest’associazione. Provai a iscrivermi al colloquio e lo passai. Così è iniziata un’avventura durata mesi tra la formazione prima della partenza, i tempi per il passaporto, i vaccini obbligatori, i vestiti diversi: non sarebbe stata una vacanza. Consiglio più utile? Nessuna aspettativa, ma vivere pienamente tutto: il brutto e il bello dell’Africa. E così è stato. Quando torni – e per molto tempo – è più facile parlare delle cose belle, mentre quelle più crude le tieni per te.
Siamo partiti a metà settembre del 2013, nonostante i treni incendiati e le macchine rotte. Atterrati alle quattro di mattina, il primo benvenuto è stato l’AK-47 di un soldato all’uscita del gate dell’aereoporto di Nairobi. Subito dopo, una volta saliti su quello che sarebbe stato il nostro bus per il mese che ci aspettava, abbiamo incontrato delle tranquille zebre. Questa continua contrapposizione e scontro tra la bellezza e la nuda realtà era parte del nostro essere lì e del modo in cui ci eravamo. Non siamo stati ospiti o turisti di passaggio: abbiamo vissuto con loro, alcune volte nelle baracche di lamiera, altre per terra, nel bel mezzo della savana.
Non siamo stati ospiti o turisti di passaggio: abbiamo vissuto con loro, alcune volte nelle baracche di lamiera, altre per terra, nel bel mezzo della savana.
Ho vissuto per tre settimane con i minori del centro Ndugu Ndogo per la riabilitazione dei bambini di strada di Amani for Africa. Bambini dai 6 ai 16 anni che Jack, un tempo uno di loro, curava e rieducava semplicemente dando loro una casa. Di quelle settimane ricordo la musica, i balli a qualsiasi ora. I piedi scalzi sempre sporchi, il profumo di coriandolo, le mani sporche di farina per preparare il “chapati”. Ma una delle immagini che non dimentico facilmente sono gli occhi gialli di un ragazzo di 17 anni, mentre eravamo in una piccola baraccopoli di Ngong. Quel colore – ci spiegarono – è provocato da una prolungata esposizione ai fumi della colla da scarpe che lui, in quel momento, aveva in mano dentro una bottiglietta di plastica. Molti in quelle zone la inalano per inibire il senso di fame seppur consapevoli degli effetti collaterali quali spasmi muscolari e deficit cognitivi.
Le quattro settimane che ci vedevano immersi nelle diverse baraccopoli sono state “ammorbidite” da un weekend in mezzo alla natura: al lago Naivasha tra aquile e ippopotami e nelle gole del parco nazionale di Hell’s gate in un safari in bici tra le zebre. L’ultimo weekend prima di partire siamo stati ospiti in un villaggio Masai, dispersi nella savana della Rift Valley, dove abbiamo seguito alcune tipiche tradizioni masai e abbiamo assistito al sacrificio di una capra in segno di ospitalità. Molto più sconvolgente è stato, però, essere svegliati e trascinati da un bambino in mezzo alla savana perché poco più lontano delle giraffe allo stato brado stavano facendo colazione.
Il pomeriggio di sabato 21 settembre a Ngong, piccola località fuori dalla città dove abitavamo, abbiamo saputo dell’attentato al centro commerciale di Westgate, in una delle zone più ricche della città. Il primo atto della lunga scia di sangue rivendicata da Al-Shabaab. L’obiettivo era uccidere persone bianche. “Bianche” (ovvero “musungu” nella lingua locale, lo swahili) è la parola che ci descrive in modo generale, a prescindere dalla nazionalità, e spesso viene usata anche in modo negativo. Le formazioni prima di partire non ti preparano a questo: agli sguardi e al trattamento diverso che ti viene riservato anche solo per barattare il prezzo di una banana o per quello di una corsa di “matatu”, i mezzi di trasporto pubblici “informali”, che per un bianco è per forza più alto. Perché tu sei solo di passaggio, ma rappresenti qualcosa che, anche se appartenente al passato, ha segnato profondamente la storia del Kenya, ex colonia inglese. Uno Stato con più di 1300 tribù e confini ereditati dal periodo coloniale. Fin da subito i tutor ci avevano avvertiti: per loro sei una “banconota che cammina”.
Una parte del nostro tirocinio era dedicata all’autonomia, soprattutto nel raggiungere le baraccopoli dove abbiamo trascorso le nostre settimane: Mathare, Kibera, Kayole, Korogocho. Per me, Maria e Monica, le persone con cui ho condiviso questa esperienza, era Kibera, una delle baraccopoli più grandi di Nairobi, e raggiungerla voleva dire circa due ore di viaggio per andare e altre due per tornare cambiando dai due ai tre “matatu”, per ognuno dei quali andava contrattato il prezzo del biglietto (e imparare a contrattare non è stato per niente facile).
Dopo l’attentato è cambiato tutto. Telefonate difficili con l’Italia dove dopo poche ore veniva data la notizia ai telegiornali serali: “Non preoccupatevi, noi stiamo bene, eravamo dall’altra parte della città, in baraccopoli, adesso siamo a casa”. Ma di certo non bastava per tranquillizzare parenti e amici.
Siamo stati tre giorni chiusi in casa, aspettando una risposta dalle agenzie di sicurezza e dalla Farnesina: se rimanere (in sicurezza) o essere rimpatriati. Alla fine siamo rimasti, ma quella tranquillità e autonomia nella nostra quotidianità erano svanite.
Dopo l'attentato, nella baraccopoli di Kibera tutte le persone ci ripetevano: "Sentitevi a casa, sentitevi libere. La porta sarà sempre aperta"
Qualche giorno dopo potemmo tornare a Kibera dove invece qualcosa era cambiato in bello. Tutte le persone che incontravamo durante le visite domiciliari nelle baracche ci ripetevano in modo timido e dolce: "Feel free, feel at home, the door will always be open”. Ovvero: "Sentitevi libere, sentitevi a casa, la porta sarà sempre aperta". Questo si è ripetuto tutti i giorni, anche in altri luoghi, fino alla nostra partenza. Per me è stato quel qualcosa che ti rassicura e ti fa sentire a casa.
Sono esperienze da cui non è facile tornare e spesso ci si riesce veramente solo dopo moltissimo tempo. Ogni anno partono ragazze e ragazzi come Silvia Romano, Antonio Megalizzi, Giulio Regeni e Patrick Zaki perché “uno sogno rimane un sogno fino a quando non si comicia a lavorarci; e allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande”.
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