Un corridoio del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Foto di Marco Panzarella
Un corridoio del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Foto di Marco Panzarella

"Non siamo i reati che abbiamo commesso"

Un gruppo di giovani tra i 18 e i 25 anni, detenuti nel carcere di Torino, ha scritto una lettera alla città denunciando il modo con cui i media parlano di baby gang. "Pubblicano nomi e cognomi, poi trovare un lavoro diventa difficile"

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30 giugno 2023

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Pubblichiamo un estratto del documento che i ragazzi hanno scritto all’interno del progetto Lettere dal carcere gestito dall’associazione Jonathan. I nomi dei ragazzi sono Dani, Amza, Giuseppe, Sami e Amin

Ci siamo resi conto che nel raccontare i fatti di reato commessi dai giovani della nostra città, si fa sempre riferimento all’etnia delle persone coinvolte, come se questa rappresentasse l’elemento che ha influenzato direttamente la commissione del crimine. Una prassi che finisce per produrre odio razziale nei confronti di alcuni gruppi sociali che appartengono alla comunità cittadina. Parlare di bande etniche significa non riconoscere pienamente l’identità di giovani nati e cresciuti in Italia e che, perciò, sono a tutti gli effetti cittadini italiani. Molti di noi appartengono a questa categoria e si sentono discriminati dalla costruzione di una narrazione che pare dire "non sei italiano, sei uno straniero e per questo sei un criminale".  

Picchio dunque sono: cosa c'è dietro il fenomeno baby-gang

Ancora, troppo spesso, sui media viene riportato il nome e il cognome delle persone coinvolte: mettere alla gogna sulla pubblica piazza una persona, indicandone le generalità, rappresenta una violazione della sua privacy. Secondo la Costituzione, le persone che commettono un reato e che scontano una pena, ancor più se giovani, hanno il diritto di potersi ricostruire una vita nella legalità, possibilità che viene loro di fatto negata dalla pubblicazione dei nomi e dei cognomi, che amplificano lo stigma della detenzione e rendono difficilissima la ricerca di un lavoro. Chi assumerebbe un delinquente apparso su tutti i giornali?

Il nostro dossier sulle carceri: "Senza uscita"

La lettera fa riferimento ad alcuni articoli comparsi sui giornali torinesi nel marzo 2021, quando dei ragazzi sono stati arrestati per aver distrutto le vetrine di alcuni negozi del centro città e rubato della merce.

Nel caso di specie – i fatti di via Roma – questo è avvenuto per alcune persone ancora innocenti, in carcere ma senza una condanna passata in giudicato. Siamo convinti che quanto fin qui descritto sia dovuto al grande allarme sociale dovuto al fenomeno delle baby gang, con le notizie che riempiono le pagine dei giornali locali. In questo caso, infatti, al nome e cognome viene aggiunto un elenco di precedenti penali, stile lista della spesa che a nostro parere vìola il diritto all’oblio, finendo esclusivamente per tracciare un preciso profilo criminale dei ragazzi. 

“Prima del carcere avevamo paura di entrarci, oggi scopriamo di avere paura di uscire”

"L’autorità loro non la considerano"; "Fare casino, che, in fondo, sembra essere la loro filosofia di  vita"; "Sono ragazzi, è vero. Ma vogliono essere boss"; "Le regole? Inutili. La legge? Un ostacolo da raggirare. L’autorità? Un fastidio da sfidare"; "Un colpo da poco, è vero, ma che riassume il modo di  pensare: in giro faccio quello che voglio". Sono solo alcune delle frasi riportate sui giornali, che costruiscono uno specifico immaginario: i giovani delle periferie – o banlieue, come si suole ormai chiamarle – sono pericolosi criminali senza nessun rispetto per le regole di convivenza.  

Infine, la riflessione sugli effetti ghettizzanti di questo tipo di informazione e la possibilità di approcci diversi alle varie forme di aggressività giovanile. 

A fare le spese di questo tipo di narrazione sono le persone che vivono nelle zone periferiche della nostra città, ancora più  ghettizzate e marginalizzate. L’immaginario collettivo delle periferie è quello di luoghi degradati e violenti, dove gli abitanti si dividono tra poveri ignoranti e incalliti criminali. Le persone vengono etichettate, senza indagare su chi davvero esse siano e che vissuti abbiano.  Un racconto che produce allarme sociale e  contribuisce a diffondere paura, che coinvolge la società civile e chi ricopre ruoli di responsabilità, come i rappresentanti politici e i giudici, che cominciano a interpretare la loro funzione in maniera sempre meno garantista. Tutto ciò crea un paradosso: prima del carcere avevamo paura di entrarci, oggi scopriamo di avere paura di uscire, in un mondo che tende a giudicare anziché dare opportunità.  

La rubrica curata dall'associazione Antigone per lavialibera

Volevamo, infine, evidenziare l’importanza di percorsi di riflessione e azione collettiva, che contribuiscono a riempire di significato il tempo della pena e che permettono di acquisire nuove consapevolezze. Ci sembra di poter dire, allora, che l’esclusione sociale inizia con l’articolo di giornale e continua col tempo vuoto "dalla branda al carrello", ovvero con la mancata applicazione delle misure alternative alla detenzione, nonostante la pena dovrebbe mutare nel corso della sua esecuzione. Speriamo che le nostre parole possano davvero entrare a far parte del dibattito pubblico, perché rappresentano la testimonianza attiva di una partecipazione che batte l’indifferenza e produce  cambiamento. Come si dice qui dentro: buona!  

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