Le donne dei detenuti protestano davanti al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Credits: Il Mattino.it (per gentile concessione di Alessio Fanuzzi)
Le donne dei detenuti protestano davanti al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Credits: Il Mattino.it (per gentile concessione di Alessio Fanuzzi)

Reato di tortura, il garante dei detenuti Mauro Palma: "L'Italia non merita passi indietro"

Ridimensionare il reato di tortura metterebbe a rischio i processi in corso e diffonderebbe una percezione di impunità, sostenendo la cultura della chiusa appartenenza ai corpi. Il commento di Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, per lavialibera

Mauro Palma

Mauro PalmaGarante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale

18 maggio 2023

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Era una tragica ironia che il Paese culla di Cesare Beccaria non chiamasse la tortura con il suo vero nome e cioè non avesse introdotto nel proprio Codice penale una fattispecie relativa specificamente a questo delitto. Nel 2017, con la promulgazione della legge numero 110, questa situazione al tempo stesso paradossale e imbarazzante - vista anche la ratifica quasi trenta anni prima, da parte dell’Italia, della convenzione Onu contro la tortura - è stata sanata. 

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A distanza di più di cinque anni da questa importante modifica normativa il bilancio è positivo e chi aveva espresso un legittimo scetticismo nei confronti di un testo legislativo non certo perfetto si è il più delle volte dovuto ricredere. Il merito è stato soprattutto della magistratura giudicante che ha saputo distinguere fra reati gravi ma minori e quelli riconducibili alla tortura, fortunatamente pochi, come per esempio fatto di recente dal tribunale di Siena (che ha condannato cinque agenti di polizia penitenziaria per il pestaggio di un detenuto avvenuto nel 2018, ndr).

Le forze di polizia del nostro Paese non temono la legge sul reato di tortura. Solo un'esigua minoranza sostiene la necessità di cambiamento, accreditandosi in modo strumentale come portavoce di un mondo che in realtà non rappresenta

Eppure, negli ultimi tempi sono circolate ipotesi di un ridimensionamento parlamentare di questo reato, per esempio trasformandolo in una semplice aggravante, magari bilanciabile con attenuanti. Il nostro Paese, e la sua cultura civile, non meritano passi indietro come questo. Non solo perché così potrebbero essere a rischio i processi in corso, alcuni dei quali relativi a fatti che hanno scosso profondamente l’opinione pubblica, che si aspetta che venga fatta pienamente luce, senza scorciatoie, dopo aver visto, per esempio, in video ufficiali, le violenze contro le persone detenute nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere. Ma anche perché occorre porre attenzione a non diffondere nel Paese una percezione di impunità e un sostegno a quella cultura della chiusa appartenenza a corpi, aggregazioni, che ne costituisce il fondamento, sfociando in una implicita omertà o nella sostanziale iniquità, come avvenuto dopo le violenze al G8 di Genova del 2001, quando all’accertamento di comportamenti penalmente e professionalmente molto gravi di alcuni esponenti delle forze dell’ordine non seguirono conseguenti provvedimenti sul piano penale, disciplinare e delle relative carriere.

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Le nostre forze di polizia, intese nel loro complesso, hanno una cultura solidamente democratica e dunque non devono temere nulla dalla promozione di un maggiore senso di accountability (responsabilizzazione, ndr), che comporta la distinzione tra i molti che fanno il proprio lavoro in modo professionale, rendendo ogni azione compiuta verificabile sul piano delle responsabilità e i pochi che cercano di coprire con un velo di opacità il proprio agire. Per questo non credo che le forze di polizia del nostro Paese temano la previsione della fattispecie introdotta e che solo una esigua minoranza sostenga la necessità di cambiamento, accreditandosi in modo piuttosto strumentale come portavoce di un mondo che in realtà non rappresenta. Una minoranza che neppure per calcolo strumentale deve essere inseguita da chi ha il compito di rappresentare il Paese attraverso la propria funzione legislativa.

Sarebbe peraltro molto miope sposare posizioni che potrebbero riportarci al passato, quando l’Italia venne sanzionata dalla Corte europea dei diritti umani per la sostanziale impunità garantita agli autori di episodi che il giudice aveva definito come tortura, nella sua sentenza, ma che non aveva potuto sanzionare come tali, in assenza della fattispecie specifica e che pertanto non potevano essere sanzionati se non ricorrendo ad altre fattispecie, meno identificative della gravità di quanto commesso e con previsioni di pena che determinavano nei fatti un forte rischio di prescrizione. L’impunità era così nella realtà, l’atto sanzionatorio diveniva finzione formale.

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Merita un’attenzione diversa l’altra considerazione sollevata dallo stesso ministro della Giustizia rispondendo alla Camera dei deputati: è relativa al passaggio dal “dolo generico”, che caratterizza l’attuale formulazione del reato di tortura, a quello “specifico”, cioè nel prendere in considerazione non solo la volontà nel commettere un determinato atto, ma anche il fine che si intendeva raggiungere nel compierlo. Tuttavia, a mio parere, sorgono due questioni rispetto a questa osservazione, qualora indicasse la volontà d’intervenire per cambiare l’attuale norma. 

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Il primo è che l’accentuazione sulla finalità può ridurre la rilevanza della gravità dell’atto in sé, soprattutto all’interno di un sistema in cui le persone sono private della libertà e affidate alla responsabilità diretta di chi le detiene e dove, conseguentemente, vi è sempre l’implicita finalità di inviare il segno della loro irrilevanza e della loro soggezione a chi esercita il potere. Anche la recente affermazione della Cassazione relativa alla fisionomia propria che acquista la violenza verso persone private della libertà da parte di chi esercita tale potere nei loro confronti, credo debba essere letta in tal senso. 

Il secondo è che il testo è stato frutto di un lungo e faticoso percorso che ha coinvolto le assemblee parlamentari che si sono succedute negli anni e, conseguentemente, richiede una valutazione di più lungo periodo. Le sentenze definitive che verranno potranno essere indicative e guidare eventualmente verso eventuali aggiustamenti normativi o consolidare, come io credo, la validità dell’attuale testo. La giurisprudenza sarà indicativa in tal senso. Certo, non c’è bisogno, invece, di colorare tale percorso con un ambiguo segnale per avere il consenso di coloro che quella sensazione d’impunità non l’hanno mai vista o non l’hanno mai considerata come un problema.

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