Il carcere Lorusso-Cutugno di Torino
Il carcere Lorusso-Cutugno di Torino

Torture nel carcere di Torino: "Impossibile che i vertici non sapessero"

Le parti civili contestano la difesa dei vertici dell'istituto penitenziario Lorusso-Cutugno di Torino, accusati di omessa denuncia e favoreggiamento per i presunti reati di tortura commessi dagli agenti di polizia penitenziaria tra aprile 2017 e ottobre 2019: "Hanno scelto di proteggerli"

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoRedattrice lavialibera

7 febbraio 2023

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"Impossibile che i vertici non sapessero: hanno scelto di proteggere gli agenti a discapito del rispetto dei diritti dei detenuti". Secondo una fonte de lavialibera, in un'udienza che si è svolta oggi al tribunale di Torino, gli avvocati del Garante nazionale e regionale dei diritti delle persone private della libertà personale hanno contestato la difesa dell'ex direttore del carcere Lorusso e Cutugno di Torino Domenico Minervini e dell'ex comandante degli agenti di polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza, accusati di omessa denuncia e favoreggiamento per i presunti reati di tortura commessi in istituto tra aprile 2017 e ottobre 2019. Entrambi i Garanti, difesi rispettivamente dagli avvocati Davide Mosso e Roberto Capra, si sono costituiti parte civile nel processo a carico dei vertici della struttura. Il Garante regionale ha chiesto nel complesso un risarcimento di 25mila euro da devolvere alla casa circondariale. 

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"Impossibile che i vertici non sapessero: hanno scelto di proteggere gli agenti a discapito del rispetto dei diritti dei detenuti"

Sia Minervini che Alberotanza hanno scelto il rito abbreviato. Tra gli agenti, l'unico ad aver optato per questa soluzione è Alessandro Apostolico che con "violenze gravi" e "crudeltà" avrebbe provocato "acute sofferenze fisiche" a un detenuto e poi l'avrebbe minacciato per assicurarsi l'impunità. Gli altri 22 imputati, invece, hanno scelto il rito ordinario che inizierà solo a luglio del 2023 (e, come denunciato da lavialibera, dopo pochi mesi alcuni di loro sono tornati in servizio nello stesso istituto e persino nella stessa sezione). Nella scorsa udienza il pubblico ministero Francesco Pelosi ha domandato un anno di carcere per Minervini, un anno e due mesi per Alberotanza e quattro anni per Apostolico.

Per il tribunale di Torino gli abusi in carcere non sono urgenti. E gli agenti tornano in servizio

"Il direttore del carcere sapeva dal 2017, non ha denunciato"

A inizio processo, la difesa di Minervini ha puntato sul fatto che l'ex direttore non fosse del tutto consapevole di quanto accadesse all'interno del carcere, giudicando le tante segnalazioni ricevute dalla Garante cittadina dei diritti delle persone private della libertà personale Monica Gallo "troppo generiche". Ma, secondo gli avvocati di entrambi i Garanti, la sua ricostruzione non è attendibile. Minervini, come ammesso da lui stesso, è venuto a conoscenza della situazione già nel 2017, quando in occasione di un convegno dal titolo Proiezione del film di Ambrogio Crespi "Spes contra Spem. Liberi dentro" (il cui video è disponibile sul sito di Radio Radicale) un detenuto di origine nigeriana, che non è parte del processo, si è alzato denunciando al microfono di essere stato picchiato dagli agenti. "Lei ha il potere di intervenire", era stato l'appello dell'uomo, a cui l'ex dirigente aveva reagito con un'ammonizione: "Attenzione a calunniare".

La difesa dell'ex direttore del carcere di Torino: "Segnalazioni troppo generiche"

Non solo. Gallo ha più volte informato Minervini dei presunti episodi di violenza che si verificavano nel padiglione C, in cui sono reclusi gli autori di reati sessuali. Segnalazioni che avevano sempre lo stesso protagonista: l'allora responsabile di sezione, l'ispettore Maurizio Gebbia considerato "non solo un picchiatore, ma anche una persona che copriva i picchiatori". Minervini – ha detto Mosso – aveva assunto un patrimonio conoscitivo considerevole, in particolare per quel che riguarda un detenuto di nome Diego Sivera, più volte picchiato e insultato dalla polizia penitenziaria. Il detenuto aveva denunciato che gli agenti lo avevano fatto rimanere in piedi davanti al muro della sezione per 40 minuti, costringendolo a ripetere "Sono un pezzo di merda". Episodio in parte confermato ad Alberotanza da una delle sue fonti fiduciarie all'interno dell’istituto, e che viene segnalato dalla Garante Gallo al provveditorato. Allertato, Minervini avrebbe "dovuto comunicarlo alla procura della repubblica – sostiene il legale –  e non solo non l’ha fatto ma ha incaricato Alberotanza di avviare un'istruttoria interna". 

Sul fatto che Minervini non avesse sufficienti prove sugli abusi per informare l'autorità giudiziaria, l'avvocato dell'associazione in difesa dei diritti dei detenuti Antigone, Simona Filippi, ha citato un dato rilevante: dei 166 eventi critici che si erano verificati nel carcere di Torino da inizio gennaio a inizio ottobre 2018, 75 (quasi la metà) erano stati registrati proprio nel padiglione C. Nel 2019 Gebbia è stato messo alla guida di un altro padiglione (il B) a seguito di "un avvicendamento preparato da tempo, dopo molte consultazioni" e "le violenze si sono spostate con lui", sostengono i difensori dei Garanti, aggiungendo che "l’ispettore era un problema e lo sapevano tutti". Minervini aveva comunicato la scelta di trasferirlo via email, scrivendo: "Gebbia verrà spostato come assicurato sei mesi fa". In un'udienza precedente, a domanda "se pensa che l'ispettore fosse idoneo a guidare un altro reparto?", l'ex direttore aveva risposto: "Ho pensato che lo spostamento avrebbe fatto bene anche a lui". 

L'istruttoria interna

L'ex comandante Alberotanza, invece, si era difeso dimostrando di aver avviato un'istruttoria interna riguardo a due episodi. Istruttorie che però sono state affidate agli stessi agenti al lavoro all'interno del penitenziario di Torino, quando il decreto del 14 giugno 2007 che istituisce il Nucleo investigativo centrale, nato per svolgere un servizio centrale di polizia giudiziaria all'interno delle carceri, all'articolo 6 avverte: "Le indagini che, in ragione della particolare riservatezza o del coinvolgimento di personale operante presso un istituto, non possono essere svolte dalla Polizia penitenziaria in servizio nel medesimo istituto”. Peraltro in precedenza lo stesso Alberotanza aveva contestato, per la stessa ragione, un'indagine interna che lo vedeva protagonista.  

"In questo processo, ci stiamo chiedendo se lo Stato possa sottoporre a tortura i suoi uomini più deboli, che dovrebbe proteggere. E se lo Stato, attraverso il sistema giustizia, sia in grado di correggersi"

L'avvocato Roberto Capra ha ricordato come "le regole prevedono che, in questi casi, i vertici dell'istituto prendano dei provvedimenti importanti, anche di natura disciplinare. Invece hanno fatto una scelta: privilegiare il rapporto con gli agenti rispetto all'osservanza dei diritti dei detenuti. Condotte omissive che il diritto permette di sanzionare". Nel caso di Alberotanza, inoltre, l'istruttoria sarebbe stata anche "dolosamente diretta a smentire quanto accaduto".

Reato di tortura, l'importanza del processo nel carcere di Torino 

Gli avvocati dei due Garanti hanno anche ricordato la valenza del processo che Mosso ha definito "estremamente importante", ricordando che "a 50 anni di distanza dal processo a Giorgio Coda, vice direttore del manicomio di Collegno e direttore della struttura psichiatrica per bambini Villa Azzurra, imputato per maltrattamenti, ci troviamo a fare un processo sull’altra istituzione totalitaria della città: il carcere". Il rito abbreviato, che riguarda i vertici della struttura, accusati per omessa denuncia e favoreggiamento, non può essere compreso senza tenere conto dei reati contestati agli agenti nel procedimento che, fatta eccezione per Apostolico, si svolgerà in estate: tra cui il reato di tortura. Ripetuti episodi di violenza che, per Capra, hanno leso la dignità dei detenuti ed erano caratterizzati dalla gratuità, cioè prescindevano dal comportamento dei reclusi in istituto, tanto "che gli agenti si erano preoccupati persino di ottenere le carte processuali dei reclusi, in modo da poterli insultare meglio".

Il reato di tortura è stato introdotto nel nostro ordinamento nel 2017, dopo un iter travagliato durato quattro anni. Il provvedimento, frutto della sintesi di 11 diverse proposte di legge, ha diviso le forze politiche: promotore ne è stato il Partito democratico che si è scontrato con l'opposizione della destra. In primis di Lega e Fratelli d'Italia che hanno giudicato la legge punitiva nei confronti delle forze dell'ordine, nonché limitante per il loro operato. La norma prevede la reclusione da quattro a dieci anni per chiunque, con violenze o minacce gravi o con crudeltà, provochi a una persona privata della libertà o affidata alla sua custodia "sofferenze fisiche acute" o un trauma psichico verificabile. La pena sale da cinque a 12 anni se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. Nel 2021 ci sono state le prime sentenze per gli agenti penitenziari: il 15 gennaio un poliziotto è stato condannato a tre anni di reclusione per aver ammanettato e pestato un detenuto dopo averlo costretto a inginocchiarsi durante una perquisizione. Il 17 febbraio è stata la volta di dieci agenti responsabili di un "brutale pestaggio" a San Gimignano che ha avuto per vittima un tunisino.


"I reati di tortura contestati hanno delle caratteristiche comuni – continua Capra –: la prima è che nessuno aveva denunciato questi episodi. Molti abusi li abbiamo saputi solo dopo, grazie alle intercettazioni". La ragione della mancata denuncia sarebbe la paura: “Andare contro un agente può voler dire rendersi la vita all'interno dell'istituto un inferno”. L’altro problema è l'attendibilità, "su cui puntano molto sia Minervini sia Alberotanza per delegittimare le denunce dei detenuti: agli occhi di un magistrato, un autore di reato può risultare meno credibile di un agente". 

L'altro aspetto da tenere in considerazione riguarda chi ha subito queste condotte: gli autori di reati sessuali, oggetto di disprezzo sia al di fuori del carcere sia all’interno dove i sex offender “sono i più fragili perché esposti alle violenze prima di tutto degli altri detenuti”. In sostanza – sintetizza Capra – “in questo processo, ci stiamo chiedendo se lo Stato possa sottoporre a tortura i suoi uomini più deboli, che dovrebbe proteggere. E se lo Stato, attraverso il sistema giustizia, quindi dei percorsi stabiliti e codificati, sia in grado di correggersi". Le parti civili hanno infine ricordato che nessun processo per reato di tortura all'interno delle carceri d'Italia è stato avviato su segnalazione di un agente di polizia penitenziaria, o di un dirigente d'istituto.

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