16 giugno 2020
Le clementine, gli uliveti e, poco distante, il confine col mare. La bellezza e l’inferno, perché a disturbare la quiete della Sibaritide (la piana calabrese che prende il nome da Sibari, frazione di Cassano Jonio, in provincia di Cosenza, dove nel 2014 papa Francesco pronunciò la sua scomunica contro le mafie, ndr) a sfregiare l’incanto della terra un tempo abitata dai Greci c’è, ancora una volta, il rumore del piombo. È l'alba del 3 giugno quando, a Cassano Jonio, oltre trenta colpi di kalashnikov raggiungono la Fiat Panda di colore bianco su cui viaggia Francesco Elia, imprenditore agricolo di 40 anni, uccidendolo.
L'arma utilizzata dai sicari non lascia scampo a equivoci: l'omicidio porta la firma, inequivocabile, della 'ndrangheta. Ma è tutto normale: quanto accaduto non sembra destare più di tanto la preoccupazione degli esponenti delle istituzioni né del mondo della politica. Nessuna dichiarazione viene battuta dalle agenzie di stampa, nessuna denuncia o presa di posizione da parte dei politici locali (troppo occupati ad abrogare la legge-scandalo sui vitalizi da loro stessi approvata meno di una settimana prima), la notizia non rimbalza sui media nazionali. Forse perché non siamo a Reggio Calabria, dove l’attenzione mediatica sui fatti di mafia è alta e gli omicidi “eccellenti” suscitano ancora clamore. Qui si muore a luci spente.
Eppure non si tratta – come spesso si è indotti a pensare – di una mafia meno pericolosa o feroce. Basti pensare alle modalità efferate utilizzate per imporre il proprio diktat sul territorio, senza risparmiare nemmeno i bambini (emblematica la storia del piccolo Cocò Campolongo, ucciso e poi dato alle fiamme, sempre a Cassano Jonio, il 16 gennaio 2014). Gli ultimi fatti lo confermano.
La mattina del 3 giugno gli assassini di Elia – almeno tre – lo attendono a bordo di un’Alfa Romeo 147, appostati dietro gli alberi di contrada Caccianuova, dove ha sede l’azienda agricola di proprietà della vittima. L’uomo si sta recando a lavoro in auto di buon mattino e assieme a lui c’è un operaio romeno, Mihita Capraru Bogdan, seduto sul lato del passeggero. Appena lo avvistano, i killer gli tagliano la strada e cominciano a crivellare di colpi la Fiat Panda: trenta proiettili di mitra, forse di più. I due provano a uscire dall’abitacolo della vettura e ad abbozzare una fuga, ma mentre Elia cerca di scappare viene finito da una raffica di colpi sparati a distanza ravvicinata, fino a sfigurargli il volto. Bogdan si salva fingendosi già morto. Sarà poi trasportato in elisoccorso nel vicino ospedale di Cosenza per via delle sue gravi condizioni. Testimone involontario di un agguato che potrebbe presto contribuire a decifrare.
Francesco Elia è in apparenza un ragazzo tranquillo e dedito al lavoro. Nel paese tutti lo conoscono perché tra i segni particolari ha una cicatrice al volto e una mano monca. Ma è nel suo passato non proprio adamantino che bisogna scavare per trovare elementi utili a ricostruire, in parte, quanto gli è accaduto.
Suo padre Alfredo era considerato gregario del boss Santo Carelli, capo del “locale” di Corigliano: a lui toccò la stessa sorte del figlio nel 1992, quando cadde per mano della 'ndrina rivale capeggiata da Leonardo Portoraro, che così avrebbe vendicato l’uccisione del fratello. Portoraro fu processato per l'omicidio Elia e ne è uscito con un'assoluzione. Le radici dei dissapori affondano, come sempre, nella lotta per la spartizione del potere: sono gli anni in cui matura il conflitto tra gli affiliati alla camorra di Giuseppe Cirillo (erede della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo), che controlla buona parte della fascia jonica, e gli scissionisti di Carelli, che mal sopportano ingerenze esterne nel proprio territorio, gli anni dell’ascesa del clan Forastefano e dell’inizio delle guerre di mafia nella Sibaritide.
Dopo aver seguito le orme del padre, Francesco Elia decide di collaborare con la giustizia rendendo importanti dichiarazioni sul ruolo di mediazione di politici regionali con il clan Forastefano
Francesco segue inizialmente le orme di suo padre. Nel 2009 viene coinvolto nell'inchiesta "Omnia" della Dda di Catanzaro – che prende il nome proprio da quello dell’azienda di sua proprietà – da cui scaturisce il processo contro esponenti di vertice del clan Forastefano, al quale è ritenuto contiguo. Decide di collaborare con la giustizia e rende dichiarazioni importanti anche sul ruolo di mediazione di esponenti politici regionali, tra cui l’ex consigliere Franco La Rupa, con il clan di ‘ndrangheta dei Forastefano. Poi ritratta, ma viene comunque assolto dall’accusa di associazione mafiosa.
Sceglie di ripulirsi, di cambiare vita, di dedicarsi solo al suo lavoro, ma non è semplice in un territorio dove chi comanda chiede conto di ogni affare intrapreso senza consenso. Le ripetute intimidazioni ai danni della sua ditta ne sono, forse, la prova.
La pista seguita fin da subito dagli inquirenti – della procura di Castrovillari prima, coordinati dal sostituto procuratore Valentina Draetta, e della Dda di Catanzaro poi, cui viene trasmesso il fascicolo – porta dritta ai Forastefano e al sodalizio criminale con il clan degli zingari, che fa capo agli Abbruzzese ed è legato al “crimine” di Cirò (in provincia di Crotone). Nel rapporto semestrale della Dia relativo al 2019 si legge che “sul versante jonico cosentino esercita la propria egemonia il gruppo Abbruzzese di Cassano allo Ionio, dedito prevalentemente al traffico di sostanze stupefacenti”.
Secondo il giornalista Arcangelo Badolati, dopo le faide è nata una supercosca che controlla ora la florida economia di una delle aree più ricche della Calabria
L’attenzione dei magistrati si focalizza, in particolare, sugli appetiti delle cosche nel ramo dell’agricoltura, il grande business dell’area della Sibaritide in grado di attirare veri e propri fiumi di denaro. “Finite le faide tra le cosche tradizionali della ‘ndrangheta e i nomadi – spiega Arcangelo Badolati, giornalista calabrese tra i massimi esperti di ‘ndrangheta – si è addivenuti a un accordo sfociato nella nascita di una supercosca che controlla pedissequamente tutta la florida economia di una delle aree più ricche della Calabria: si va dal settore agricolo passando per l’imposizione del pizzo alle tante imprese commerciali attive sul territorio, culminando nelle attività di ingerenza sulle grandi strutture turistico-ricettive”.
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“A ciò si aggiunge l’interferenza nelle opere pubbliche, per esempio il riammodernamento della statale 106 jonica e della rete ferroviaria agendo, infine, nel settore lucroso del traffico di sostanze stupefacenti. La supercosca ha diramazioni anche in Germania. È a questo quadro che devono ascriversi decine di attentati intimidatori e tutti gli omicidi compiuti nell’area compresa tra Trebisacce, Sibari, Cassano, Villapiana, Corigliano-Rossano e Castrovillari”, conclude Badolati. È il caso di Leonardo Portoraro, il boss ucciso a giugno 2018 a Villapiana a colpi di kalashnikov, o dell’aspirante boss Pietro Longobucco, ritrovato cadavere nelle acque del porto di Schiavonea nel dicembre 2019. O ancora, di Pietro Greco e Francesco Romano, finiti a colpi di mitra nelle campagne di Corigliano-Rossano a luglio dello scorso anno.
Sullo sfondo, anche due casi di lupara bianca (l’omicidio di mafia che prevede l’occultamento del corpo, ndr): da tempo ormai non si hanno notizie di Antonino Sanfilippo, amico di Pietro Longobucco, e di Cosimo Rosolino Sposato, ritenuto vicino ad ambienti criminali della Sibaritide, spariti entrambi nel nulla senza lasciare traccia.
Quella di Francesco Elia è solo l’ultima esecuzione in ordine di tempo, e ha tutto il sapore di un avvertimento: questo capita a chi non rispetta le regole. Nel silenzio generale che avvolge la sua morte si leva la voce solitaria del presidio locale di Libera nato un anno fa e intitolatoa Fazio Cirolla (ucciso a Cassano Jonio davanti agli occhi del figlio il 27 luglio 2009). Un altro nome che riporta alla mente fatti di ‘ndrangheta legati alla Sibaritide e mai risolti. “Non si può rimanere in silenzio davanti all’ultimo episodio di sangue avvenuto nel nostro territorio – recita una nota dell’associazione –, la pressione mafiosa, che condiziona malamente la nostra economia e che da tempo era rimasta nascosta è purtroppo tornata a farsi sentire. La furia assassina scatenatasi è degna di uno scenario di guerra ma non di un Paese civile. Davanti a tanta barbarie nessuno rimanga in silenzio”.
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