Hamid Badoui. Foto fornita al Gruppo Abele dalla sorella Zahira.
Hamid Badoui. Foto fornita al Gruppo Abele dalla sorella Zahira.

Torino, morto in carcere per paura del cpr. La garante: "Sono gabbie che mortificano l'essere umano"

Hamid Badoui si è tolto la vita in cella dopo l'arresto nel capoluogo piemontese: temeva di tornare nel centro in Albania. La garante dei detenuti Monica Gallo: "Un sistema inutile che nega la dignità delle persone straniere"

Paolo Valenti

Paolo ValentiRedattore lavialibera

22 maggio 2025

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Si chiamava Hamid Badoui, aveva 42 anni e viveva in Italia da 15. Si è tolto la vita nella sezione "nuovi giunti" dell'istituto Lorusso Cotugno di Torino nella notte di domenica, un giorno dopo l'ingresso: è il 32simo suicidio in un carcere italiano da inizio anno. Ma la sua storia somiglia anche a quelle delle troppe vittime dei centri di permanenza per il rimpatrio (cpr, almeno 15 i decessi negli ultimi sei anni): negli ultimi mesi era stato trattenuto nel cpr di Bari perché sprovvisto di permesso di soggiorno, poi trasferito nel centro di Gjadër, in Albania. Riportato in Italia, era stato arrestato sabato scorso nel capoluogo piemontese, pare per aver dato in escandescenza dopo aver subito un furto.

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Nel carcere di Torino Hamid era già passato in precedenza per piccoli furti commessi per comprare il crack, ma prima dell'ultima scarcerazione aveva chiesto di contattare il Gruppo Abele per avviare un percorso di uscita dalla dipendenza. Eppure gli operatori, che già lo conoscevano, non l'hanno più visto. Solo dopo la morte hanno saputo dei trattenimenti nei centri per il rimpatrio. "Meglio il carcere del cpr", ha detto Hamid all'avvocato poco prima di togliersi la vita. "Me lo ripetono in tanti", dice a lavialibera Monica Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Torino, che abbiamo intervistato. "È un sistema che mortifica la dignità della persona e non porta nessun risultato".

"Hamid presentava condizioni di marginalità e fragilità allarmanti. Chiunque poteva capire che una nuova restrizione della libertà sarebbe stato un punto di non ritorno"

Dottoressa, cosa racconta la morte di Hamid Badoui?

Solitamente conosciamo pochissimo delle persone che muoiono in carcere. Sappiamo come e quando succede, il nome e il cognome, ma in casi rarissimi riusciamo a inoltrarci nelle loro storie personali. Quella di Hamid prima che entrasse in carcere ora la conosciamo: come tante altre, era segnata da condizioni di marginalità e fragilità allarmanti, dove chiunque avrebbe potuto capire che un’ulteriore restrizione della libertà avrebbe potuto rappresentare un punto di non ritorno. Allora è giusto insistere sul sovraffollamento e sulla carenza di organico nelle carceri, ma credo sia necessario anche porre l’attenzione sulla storia delle persone, che dovrebbe essere perlomeno registrata all’ingresso nel carcere. Invece si continua a procedere per protocolli e norme, ci si ferma all’illecito senza guardare alla persona.

Prima il carcere di Torino, poi il cpr di Bari, Gjader in Albania e di nuovo a Torino: il percorso di Hamid negli ultimi mesi è stato segnato da continui spostamenti forzati da una parte all’altra dell’Italia e non solo. Un caso raro?

No, storie simili sono molto frequenti e mostrano la totale mancanza di riconoscimento della dignità della persona straniera. Non importa come e dove vengono spostati, chi viene o non viene avvertito, se i loro effetti personali vengono trasferiti o meno. Chi subisce questo trattamento, poi, spesso non lo capisce. Si chiedono: “Perché dopo aver scontato la mia pena in carcere devo restare ancora in un cpr, magari venire trasferito dall’altra parte dell’Italia o ancor peggio in Albania?”. 

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Poco prima di togliersi la vita, Hamid aveva detto al suo avvocato: “Meglio il carcere che il cpr”. Lei che conosce entrambe le strutture, può comprendere questa frase?

Parole simili mi vengono ripetute ogni volta che visito il cpr. In effetti, pur nelle sue complessità, il carcere è un organismo che vive: all’interno c’è la scuola, ci sono attività lavorative, c’è la formazione, ci sono attività, anche se non sempre di valore e per tutti. Le giornate sono scandite da un ritmo, certo sempre uguale, e dal contatto con gli operatori penitenziari, periodicamente anche con i familiari e gli avvocati. Quello dei cpr, invece, è un tempo vuoto, che le persone trascorrono lentamente e passivamente senza poter fare alcuna attività, senza cellulare, senza una penna per scrivere. Restano tutto il giorno a pensare cosa ne sarà del loro futuro da soli, perché spesso neanche gli operatori sanno dar loro delle risposte. La sofferenza e il conflitto sono inevitabili in un ambiente del genere, e infatti ne vediamo i risultati.

"Quello dei cpr è un tempo vuoto, che le persone trascorrono passivamente senza nessuna attività né contatto. La sofferenza e il conflitto sono inevitabili"

Nell’ultimo mese, il cpr di Torino ha registrato due rivolte. Ha potuto visitarlo?

Sì, sono entrata ieri. Adesso soltanto un’area è funzionante e i migranti sono 27. Teniamo presente che se l’intera struttura fosse agibile potrebbe contenerne 180. Tutto il resto è in parte devastato dalle ultime rivolte, in parte ancora in fase di ristrutturazione, e questo per me è un grande punto interrogativo: il cpr è stato chiuso per due anni, perché non sono stati completati i lavori prima di riaprirlo? Forse sarebbe opportuno interrogarsi sulle procedure e sui costi. Durante la visita ho parlato con alcune persone che da giorni lamentano dolore ai denti, per cui è urgente organizzare al più presto la presenza di un medico dentista almeno una volta a settimana, che al momento non è prevista.

Tra pochi giorni ricorre il quarto anniversario della morte di Moussa Balde, che il 23 maggio 2021 si è tolto la vita nel cpr di Corso Brunelleschi. Abbiamo imparato qualcosa da quella tragedia?

Non credo che tutti abbiano imparato qualcosa. C’è una parte di società che ha maturato una sensibilità, che continua a commemorare e chiedere la chiusura definitiva del cpr. Ma c’è anche chi continua a credere alla propaganda secondo cui lo straniero è cattivo e va rinchiuso e portato al paese d’origine. Eppure sono i numeri a raccontare l’inutilità di questo modello: nei due mesi trascorsi dalla riapertura del cpr sono stati effettuati solo 8 rimpatri e 14 delle 27 persone che sono ora dentro non possono essere rimpatriate perché vengono dal Marocco, con cui non abbiamo accordi che lo consentono.

Eppure il governo insiste su questa strada, tanto sul “modello Albania” quanto sul progetto di costruire un cpr per regione. Perché?

Non vedo altro se non un’assoluta mancanza di ragionamento e di volontà di intraprendere un lavoro più ampio rispetto alle politiche di inclusione. Ci si ostina a voler rinchiudere e espellere, anche se i risultati mostrano che non funziona.

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Crede che stia crescendo nell’opinione pubblica la consapevolezza rispetto ai cpr?

Qui a Torino c’è abbastanza attenzione, che è stata favorita dal lavoro di tante associazioni ma anche dal fatto che la struttura si trovi in una posizione relativamente centrale rispetto a quelle di altre città. In generale, però, mi sembra di respirare un clima di assoluta indifferenza. Continua a incalzare il messaggio: “Sono dei delinquenti, teniamoli lontano dalla vista”.

Come si abbatte quel muro di indifferenza, nei confronti tanto dei cpr quanto delle carceri?

Sono luoghi troppo chiusi, dove spesso i diritti non sono tutelati, ma nessuno se ne accorge. Il primo passo allora è aprirli maggiormente, permettere a più persone di entrarci. Oggi possono farlo solo i garanti e i parlamentari, anche i giornalisti faticano tantissimo. Questo contribuirebbe a diffondere una cultura diversa. Sono convinta che se per la città prendessimo venti persone che hanno un’opinione positiva dei cpr e le portassimo dentro a vedere quali sono le condizioni, molti maturerebbero un pensiero diverso. Basta guardare all’architettura, che mortifica l’essere umano. Sono gabbie, non c’è altro modo per descriverle.

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