
Autonomia differenziata, referendum bocciato. Avanti su cittadinanza

1 marzo 2025
Nella settimana prima di Natale sono stato intervistato dall’associazione MetaSud sui temi dell’immigrazione, della difesa dell’identità e della costruzione dell’alterità. Il giovane intervistatore, Stefano Paciolla, mi ha invitato ad applicare alle tematiche dell’immigrazione la teoria dell’antropopoiesi (formazione, modellamento, costruzione di forme di umanità), che insieme ai miei collaboratori ebbi modo di formulare a partire dalla seconda metà degli anni Novanta.
In particolare, l’intervistatore ha sottoposto alla mia attenzione il concetto di xenopoiesi, vale a dire i processi mediante cui i migranti affrontano una seconda o terza nascita, dopo la nascita biologica e la nascita sociale, assumendo la figura dello “straniero” (xenos in greco). Sono rimasto colpito da questa proposta, che mi ha portato indietro nel tempo, allorché diversi anni or sono in una conversazione pubblica provai a interpretare l’esperienza migratoria alla stregua dei rituali di iniziazione.
Può essere che al venir meno dei riti di iniziazione tradizionali, culturalmente codificati, i giovani si lancino in esperienze traumatico-formative? Può essere che la spinta a uscire dalla propria società sia dovuta a qualcosa di più profondo che motivazioni di ordine strettamente economico? O, ancora, che tali motivazioni acquisiscano ulteriore senso e forza, intrecciandosi con ragioni di ordine antropopoietico?
I riti di iniziazione rientrano nella categoria dei riti di passaggio teorizzati nel 1909 da Arnold Van Gennep. L’idea di uscire da un contesto (la propria famiglia, il proprio villaggio, il proprio quartiere) dove si è nati e cresciuti, di affrontare un duro periodo di transizione (costituito da prove spesso terribili, da sofferenze fisiche e psichiche, che scuotono fin nell’intimo la struttura di una persona), per poi approdare a una forma di umanità più matura e consapevole, è qualcosa che troviamo in tutti i rituali di iniziazione.
Non per nulla in questi rituali osserviamo spesso non solo il dislocamento effettivo dei giovani fuori dalla società abituale, ma anche l’immagine del “viaggio” con cui viene interpretata l’intera esperienza iniziatica. Un tempo tra i banande del nord Kivu (Repubblica democratica del Congo) i responsabili dell’iniziazione si rivolgevano alla divinità Katonda con un canto-preghiera che si concludeva con queste parole: "Che il nostro viaggio (olughendo) generi degli uomini".
Il viaggio, la transizione, il passaggio spesso traumatico ha o dovrebbe avere una funzione antropopoietica. Il viaggio genera degli uomini obbligandoli ad affrontare la condizione di straniero. In effetti, nei tragitti migratori il giovane diviene straniero in diversi modi: si allontana dalla propria società, estraniandosi rispetto ad essa; le esperienze traumatiche che costellano il suo cammino lo rendono inoltre straniero a sé stesso; infine prova su di sé l’esperienza dello straniero, imbattendosi nelle società che attraversa o a cui approda.
Nei tragitti migratori il giovane diviene straniero in diversi modi: si allontana dalla propria società, estraniandosi rispetto ad essa
Straniero indica una condizione di sospensione, di crisi, di margine. E margine, sosteneva Van Gennep, non è una nozione marginale bensì centrale. Il margine è la zona centrale dell’antropopoiesi, in quanto è la fucina in cui viene meno il passato e si prepara il futuro. In modo alquanto ardito abbiamo interpretato il viaggio migratorio alla luce dei rituali di iniziazione, ma non c’è confronto tra la messa in forma dei rituali da un lato e l’aleatorietà dell’esperienza migratoria dall’altro: attraversamento di deserti; violenza, sfruttamento, vessazioni subite nelle diverse tappe del viaggio; la morte in agguato in ogni momento.
Non c'è futuro senza convivenza
Alcuni governi e molti politici, in Italia e in Europa, invocano la deterrenza e si inventano espedienti normativi e logistici (per esempio, i centri di smistamento e di espulsione in Albania) per tenere lontani i migranti e impedire che raggiungano i loro obiettivi.
In un contributo pubblicato su lavialibera dal titolo Portatori di speranza avevamo insistito molto sul nesso disperazione-speranza e su come una speranza disperata sia per molti una risorsa irrinunciabile di umanità. "Ci si sente uomini e donne proprio in quanto si è animati dalla speranza", in quanto si è, nonostante tutto, portatori di quel principio-speranza che negli anni Cinquanta Ernst Bloch poneva al centro del senso di umanità.
In quello stesso contributo, si invitava quindi a cogliere nei movimenti migratori "un enorme potenziale umano", un’energia antropopoietica, oltre che un’esigenza di "fare umanità" di cui sarebbe stupido, oltre che delittuoso, privarsi. Lo "spreco di umanità" che la nostra cecità produce (la cecità del respingimento, dell’indifferenza, della valutazione puramente economica della forza lavoro) è uno spreco ignobile di cui sono vittime non solo i portatori di speranza, ma anche coloro che se ne stanno comodamente seduti nelle case e negli Stati della fortezza Europa.
Nei movimenti migratori "un enorme potenziale umano", un’energia antropopoietica, oltre che un’esigenza di "fare umanità" di cui sarebbe stupido, oltre che delittuoso, privarsi
Lo spreco di umanità ci riguarda direttamente e intimamente, in quanto privandoci di umanità – di progetti per costruire “insieme” umanità (syn-anthropein, avrebbe detto Plutarco) – acquisiamo al suo posto tanta disumanità. Non c’è bisogno di essere furiosamente e platealmente “contro” i portatori di speranza: anche il silenzio e l’indifferenza consentono alla disumanità che ne deriva di infiltrarsi insidiosamente nelle nostre vite, nei nostri animi, nelle nostre azioni e di aggiungersi alla disumanità che per altri motivi già ospitiamo
Da lavialibera n° 31, È tempo di muoversi
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