12 settembre 2023
Venticinque anni appena compiuti, origini marocchine, arrivata in Italia all’età di tre mesi, l’ultima di sei figli. Ho sempre vissuto a Torino, dove mi sono laureata in Scienze infermieristiche. Sono le informazioni necessarie alle persone che incontro la prima volta per definirmi una "marocchina buona", "oramai italiana", una "marocchina di seconda generazione". Trovata l’etichetta, credono di aver risolto il problema di dove inscatolarmi, ma non si rendono conto di riproporre un modello che è alla base delle discriminazioni vissute ogni giorno, sotto varie forme, da figlie e figli dell’immigrazione.
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Buffo, perché ho iniziato a chiedermi chi sono solo due anni fa, quando non vivevo più con i miei. Le domande che mi affollavano la testa riguardavano le mie origini, l’idea di non essere rientrata in Marocco per anni, la necessità di usare un nome che non è il mio, il continuo senso di colpa sui luoghi di lavoro, la sensazione di fatica nell’essere sempre iper prestante e iper disponibile. Il senso di smarrimento e dolore è stato talmente forte da trascinarmi in momenti di grandissima tristezza. Non avevo risposte e non sapevo dove cercarle. Mi chiedevo se ci fossero associazioni o luoghi dove chi ha un background migratorio si incontrasse per confrontarsi sulle questioni quotidiane. Nulla.
Sono cresciuta in un ambiente a prevalenza bianca, reprimendo differenze culturali per essere accettata
Dopo la mia laurea ho trovato il coraggio di andare in Marocco, il paese dei miei familiari, delle tradizioni con cui sono cresciuta, della lingua che mia madre mi parlava quando ero nel suo grembo, luogo di ricordi e profumi. L’idea di rientrare in Marocco mi spaventava, avrei rivisto i miei cari dopo che per lungo tempo avevo respinto le mie origini. È stato allora che mi sono accorta di quante parti di me avessi tagliato via per poter vivere in Italia ed essere accettata.
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Quando sono tornata dal viaggio ero arrabbiata: con il Marocco, con l’Italia e all’inizio anche con me stessa. Ripensare agli anni della scuola, dall’asilo alle medie, mi ha riportato alla mente tutte le circostanze in cui è avvenuta la rottura tra il mio paese di origine e quello di crescita. Mi sono accorta di come essere figlia dell’immigrazione sia, insieme, una benedizione e una maledizione. Perché, se da un lato, ha dato ricchezza al mio mondo interiore, dall’altra ha caricato di responsabilità le mie spalle da bambina. Crescere in un ambiente a prevalenza bianca mi ha fatto sentire costretta a reprimere le differenze culturali per essere accettata, e mi ha fatto interiorizzare un alto livello di razzismo con cui adesso faccio i conti. Appartengo a una generazione ponte, tra quella dei miei genitori e quella di chi cresce in Italia adesso, tra le istituzioni e i gruppi di giovani con background migratorio. Sento la responsabilità nei confronti dei miei genitori, che si traduce in uno strano valzer in cui a volte sono io a essere genitore per loro.
La ricerca della mia identità sarà lunga. Devo decostruire traumi infantili e razzismo interiorizzato per trovare equilibrio e contribuire al cambiamento
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La barriera linguistica è un peso che in famiglia non dividi con nessuno perché, da una parte, ci sono genitori che in qualche modo hanno imparato la lingua del paese di arrivo e, dall’altra, istituzioni di gomma. Nel mezzo, stanno bambine e bambini che si ritrovano a tradurre pratiche, colloqui a scuola, negli ospedali. Tradurre e tradurre, come se quel loro mettersi nelle cose dei grandi sia un bene.
Spesso sento parlare di barriera linguistica e di inclusione, di corsi di lingua italiana per stranieri che non riescono a rispondere alla domanda presente sul territorio. Diciamocelo: per le persone senza strumenti questo è un passaggio difficoltoso, per non dire insormontabile, e a farsene carico alla fine sono bambine e bambini cresciuti in un caos culturale. A loro è chiesto molto, in un silenzio generale che ti porta a soffocare l’innocenza e la spensieratezza per diventare responsabile. Oggi mi accorgo che questo meccanismo inizia a scricchiolare e che quelle voci iniziano a urlare in esplosioni di rabbia sempre più forti, a cui si risponde con statico pregiudizio: è più facile dare la colpa a bambine e bambini anziché assumersi delle responsabilità come collettività e come istituzioni.
So che la ricerca della mia identità personale sarà lunga, poiché devo decostruire il razzismo interiorizzato e i traumi dell’età infantile per poi ricostruire e ridefinire, ritrovando un equilibrio. So che il mio viaggio interiore porterà altri dolori, ma mi auguro che alla fine del percorso vedrò una versione migliore di me, che possa in qualche modo contribuire al grande processo di cambiamento che sta attraversando la nostra collettività. La strada da fare è ancora molta, mentre le persone che vivono o hanno vissuto esperienze simili e riescono a raggiungere luoghi di rappresentanza o di potere sono ancora troppo poche rispetto a una trasformazione sociale che va molto più veloce.
Da lavialibera n° 22, Altro che locale
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