10 dicembre 2021
Adama e Awa sono due gemelle di origini senegalesi. Sono nate e cresciute nel quartiere Parella a Torino, 23 anni fa. Dice Awa che per lei è stato uno shock scoprire di non essere italiana: “Quando ho fatto la carta d’identità a 12 anni ho scritto nel modulo ‘cittadinanza italo-senegalese’, ma l’impiegato l’ha corretta in ‘senegalese’. Per me era ovvio indicarle entrambe, mi sono offesa moltissimo”. Dice Adama che in Senegal, dove sono state due volte da bambine, lei si sentiva a disagio. “C’era una parte di me che mi era estranea – racconta –. Ancora oggi mi dicono che sono toubab, europea, perché sono timida e chiedo il permesso prima di fare ogni cosa”.
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Incontro le gemelle dopo averle scoperte sull’app Tellingstone, che associa la geografia del capoluogo piemontese ai vissuti di chi la abita. La loro storia è parte della storia di Torino. Nel video le sorelle parlano di identità. “È un concetto difficile – prova a spiegare Awa –. Arriva sempre chi ti chiede se ti senti più senegalese o italiana, io credo di essere sempre stata entrambe”.
"A 12 anni ho fatto la carta d'identità. Ho scritto di essere cittadina italo-senegalese. L'impiegato l'ha corretta in senegalese"Adama
Nell’indagine Istat sulle cosiddette seconde generazioni alla domanda “ti senti italiano?” il 38 per cento dei ragazzi stranieri residenti nel nostro Paese risponde di sì, il 33 per cento si sente straniero, ma il 29 per cento "non è in grado di rispondere alla domanda”. Dovrebbe bastarci questo dato per capire che scegliere è una forzatura. Che a volte significa solo decidere tra le scarpe da ginnastica e l’abito tradizionale. L’esempio è di Adama: “mamma odiava che mettessi il vestito senegalese con le sneakers, ma a me piacciono molto entrambi”, ride.
A volte carichiamo di enfasi il tema dell’identità per non affrontare quello più schietto e concreto dei diritti
Il punto non è decidere chi siamo. A volte carichiamo di enfasi il tema dell’identità per non affrontare quello più schietto e concreto dei diritti. Le gemelle hanno ottenuto la cittadinanza italiana a 15 anni, ereditando dalla madre che l’ha conquistata per sé e per loro. Si dicono fortunate. In questo momento oltre un milione di ragazze e ragazzi nati o cresciuti in Italia aspettano che la burocrazia conceda loro lo stesso riconoscimento e con esso il diritto di votare, di trascorrere un periodo di studio all’estero e di accedere alle opportunità di lavoro per cui sarebbero pronti e preparati.
Le proposte di riforma della legge sulla cittadinanza e per lo ius soli, che prevedono requisiti semplificati e tempi di attesa ridotti, sono ferme in Parlamento da oltre dieci anni, per l’incapacità dei partiti di superare pregiudizi e calcoli elettorali. La politica ha paura di questa Italia di “seconda generazione”, bistrattata e imprevedibile nelle scelte di voto. Figurarsi chi ha costruito la propria carriera pubblica sui migranti come problema di sicurezza nazionale. “Nel nostro Paese c’è un accanimento politico e burocratico nei confronti del nostro stesso avvenire” ha scritto l’associazione Italiani senza cittadinanza al premier Mario Draghi. Un milione di senza diritto. Persone che hanno un nome, un volto, una storia. E soprattutto hanno ragione.
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