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22 maggio 2025
“A Capaci io ero presente. Ho calpestato, ho sentito, ho percepito, ho odorato. C'ero, come può esserci un ragazzo di 28 anni. Ho raccontato quelle storie e in questo modo ne sono rimaste delle tracce”. Parole di Tony Gentile, fotoreporter dalla lunga e importante carriera, autore anche della famosissima foto che ritrae Giovanni Falcone e Paolo Borsellino spalla a spalla, sorridenti, a pochi mesi dalla loro uccisione. Sicilia 1992. Luce e memoria è il titolo, nitido ed evocativo, del suo ultimo libro edito da Silvana editoriale. Nitido, perché fin dalla copertina catapulta chi lo sfoglia in un contesto storico ben preciso: la Sicilia delle stragi, una regione insanguinata da una nuova guerra di mafia, tra la fine degli anni Ottanta e i primissimi anni Novanta. Evocativo, perché nel richiamo alla luce e alla memoria, dà corpo alle sensazioni che quegli anni ancora suscitano in chi li ha vissuti e in chi li ha studiati o solo sentiti raccontare. “Avrei preferito che ci fosse la parola lutto nel titolo”, precisa Gentile. E in effetti, in quelle pagine dense di decine di scatti in bianco e nero si incontrano molta morte e molta sofferenza, mescolate a una speranza solo in parte disillusa.
Gentile, lei ha lavorato per 27 anni per l’agenzia di stampa Reuters. Decenni durante i quali il mondo del fotogiornalismo è stato travolto dall’avvento del digitale, degli smartphone e dei social network. Oggi siamo sommersi di immagini. Come ha vissuto queste trasformazioni?
Il primo grande cambiamento, per me, è stato lasciare questo lavoro. Ho smesso perché non mi ritrovavo più in un giornalismo che abbassa sempre di più la sua qualità per la pretesa di essere presente subito, ovunque. Anche la fotografia è finita dentro questa corsa folle e questo eccesso di stimoli da cui siamo bombardati, in cui non distinguiamo più ciò che è vero da ciò che non lo è. Prima era diverso, i rullini erano fatti di 36 foto e avevano un costo. E c’erano i tempi dei giornali, che chiudevano ad una certa ora e tu dovevi essere pronto con le foto entro quel termine.
L’ennesima rivoluzione è quella dell'intelligenza artificiale. Che pensa del suo utilizzo in ambito fotografico?
Essendo dotato di ignoranza naturale, non riesco a vedere il futuro e non mi confronto con l'intelligenza artificiale. È un mondo che non mi interessa perché non ci vedo una prospettiva. Per me, questa nuova possibilità andrebbe applicata alla medicina, alle cose importanti della vita, non usata per fare le foto belle: non è la fotografia, e non potrà mai esserlo.
Che rapporto c’è tra fotografia e verità?
La fotografia non rappresenta la verità, ma il punto di vista parziale di chi la racconta attraverso il suo obiettivo. Un po' come qualsiasi prodotto giornalistico, in cui si sceglie sempre un punto di vista: magari sposti di 5 metri l’obiettivo e c'è una scena che contraddice quello che hai visto poco prima.
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Ha sostenuto che lavorare per un'agenzia di stampa significa comunque essere pronti a fotografare qualsiasi cosa e a muoversi da qualsiasi parte del mondo, spesso con estrema rapidità. Le è piaciuto farlo?
Il lavoro di fotografo per un’agenzia di stampa di attualità è schizofrenico, perché a volte non riconosci più quello che hai fatto solo il giorno prima. Però era quello che amavo fare. Essere riuscito a lavorare per un'agenzia di stampa così importante per molti anni, coprendo una serie di eventi fondamentali, mi permette oggi spesso di dire “io c'ero”. Ad esempio, tutti ricordano dov’erano durante la finale dei Mondiali di calcio del 2006: io ero su quel campo e poi sull'aereo con la Coppa del Mondo.
Oriana Fallaci diceva che ciò che l'aveva fatta innamorare del giornalismo era la possibilità che questo mestiere dà “di vivere come un tarlo dentro la storia”, cioè di raccontare la storia nel momento in cui accade. Condivide quest’idea?
Assolutamente sì. La storia, quella che noi siamo abituati a leggere sui libri, è fatta prevalentemente di fatti di cronaca, alcuni piccoli, alcuni grandi. Se hai avuto la fortuna di seguire la cronaca, e di raccontarla, puoi in parte anche aver contribuito a scrivere quel che poi diventerà un pezzetto di storia. Per dirti, a Capaci io ero presente. Ho calpestato, ho sentito, ho percepito, ho odorato. C'ero, come un ragazzo di 28 anni. Ho raccontato quelle storie e di quelle storie adesso rimangono le tracce. A me questo basta.
Oltre a Capaci, ha fotografato anche via D’Amelio e in generale una Palermo insanguinata dalla guerra di mafia. Come funzionava il lavoro del fotoreporter in Sicilia, in quegli anni, su quei temi?
Da studente, sono cresciuto con le foto di Franco Zecchin e di Letizia Battaglia, che prima di me avevano raccontato storie analoghe, in maniera anche più dettagliata. Quando è stato il mio turno, raccontare quelle storie ha contribuito a determinare da che parte volessi stare nella mia vita: se dalla parte della mafia o dalla parte della legalità. Io questa scelta l'ho fatta attraverso il fotogiornalismo.
Come ricorda la prima volta in cui ha dovuto fotografare una vittima?
Quello è il momento in cui capisci se sei capace o no, perché non è una passeggiata di salute stare davanti al primo morto. Lì ti rendi conto se sei davvero in grado di mantenere la lucidità e fotografarlo come pensi che vada fatto o come ti è possibile farlo.
Molte di quelle foto oggi non sarebbero più pubblicabili.
Prima il morto veniva buttato in prima pagina con estrema crudezza, oggi non è più così. È una censura che non vuole farci vedere l'orrore. I nostri figli giocano ad ammazzarsi sui videogiochi, magari uccidono la fidanzata, ma noi gli impediamo di vere un morto ammazzato perché altrimenti si impressionano. Per me, è follia. Alan Kurdi, il bambino siriano morto sulla spiaggia turca, andava visto. E andrebbero visti tutti i morti sott'acqua, perché altrimenti le persone non si accorgono veramente di ciò che accade.
La fotografia è politica?
Mi piace l'idea che il giornalista possa avere la capacità e l'indipendenza di raccontare tutte le voci di una storia, lasciando la libertà alle persone di farsi una propria idea. Le foto comunque rappresentano una denuncia. Altro è poi il risultato che si riesce realmente ad ottenere: mi prende lo sconforto se penso alle denunce che non sono servite a niente. Così come il lavoro di tanti fotoreporter di guerra che non è stato utile a fermare la violenza.
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Vale anche per la mafia?
Certo. La mafia non è scomparsa, ma ha capito che doveva cambiare strategia. A che cosa è servito il lavoro di Letizia Battaglia? A che cosa è servito il mio lavoro e quello degli altri che sono venuti dopo? Non lo so, mi sono fatto tante volte questa domanda e sono arrivato a una conclusione molto triste: è servito a fare l'ufficio stampa della mafia.
Molto pessimista come visione…
È una realtà. Se organizzo una strage ma non ne parla nessuno, non ho fatto niente. Invece se ne parla il mondo intero, attraverso gli articoli e le foto, è come se avessi un ufficio stampa potentissimo. Ed è quello che è successo alla mafia grazie alle mie foto, alle foto di Letizia, di Franco, di Giuseppe, di Michele, di Francesco, di tutti noi. È un paradosso ma è così. La famosa foto di Falcone e Borsellino ha un valore per me, per noi, ma lo ha anche per loro, perché è la certificazione della fine che gli hanno fatto fare. È il trofeo di guerra, è la testa del leone.
Quella foto è per lei croce e delizia?
Quella foto ha il grande valore di aver creato un legame con Falcone e Borsellino ed è entrata nell'immaginario collettivo e nel cuore delle persone. Molti mi dicono che hanno fatto determinate scelte di studio e di vita spinti dal loro esempio e magari hanno questa foto sul desktop del loro computer. Può essere considerato un aspetto estremamente positivo per chi fa il fotografo, perché hai contribuito a scrivere un pezzetto di storia e lo consegnerai al tempo. Però il fatto che Falcone e Borsellino non ci sono più, che questa foto è di morte più che di vita, ecco, questo non riesco a dimenticarlo.
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