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1 luglio 2025
Ado Hasanović è nato a Srebrenica, in Bosnia ed Erzegovina, dove trent’anni fa più di 8mila persone bosniache di religione musulmana furono uccise in meno di sette giorni dalle forze serbe di Ratko Mladić nel corso delle guerre nell'ex Jugoslavia. Un trauma che Hasanović ha provato per anni a dimenticare, senza però riuscirci, finché ha capito che affrontarlo era l’unico modo per andare avanti. Aveva a disposizione del materiale straordinario, le riprese che suo padre Bekir aveva fatto nel 1993, durante l’assedio a Srebrenica. Immagini realizzate grazie a una videocamera scambiata per una moneta d’oro, con la troupe improvvisata Dzon, Ben & Boys. Quelle riprese, insieme ai diari quotidiani da lui tenuti, hanno fornito ad Hasanović il materiale per costruire il docufilm I diari di mio padre (2024), un’opera che scava nel passato della figura paterna e, di riflesso, in quello di un’intera comunità. Il docufilm si fa portatore di una richiesta collettiva di riscatto da un dolore che ancora oggi, a distanza di tre decenni, rimane profondo. Ma è soprattutto il tentativo di fare i conti con una serie di domande irrisolte, attraverso l’esplorazione del rapporto con il padre Bekir, tra i pochi sopravvissuti alla Marcia della morte, e l’incapacità di comunicare con lui. Un’indagine sulle ferite invisibili lasciate dalla guerra, ma anche sul delicato equilibrio tra il bisogno di testimoniare e ricordare e quello, altrettanto umano, di dimenticare.
"Gli incubi sono terminati quando ho finito il film e ho deciso di parlare di questo trauma. Se una persona non fa bene i conti con se stesso è difficile andare avanti"
Quando è scoppiata la guerra lei aveva solo sei anni. Qual è il suo ricordo più forte?
Ho tre immagini impresse nella mia memoria e risalgono tutte al 9 maggio 1992, il giorno in cui c’è stato il primo eccidio di massa, con 64 civili fucilati. Insieme a mia madre e ai miei fratelli c’eravamo nascosti nel bosco, mentre mio padre aveva trovato riparo tra le foglie, grazie all’aiuto di un anziano del villaggio. Sentimmo una forte esplosione e mia madre disse: "Hanno colpito la macchina di vostro padre". Provai una tristezza enorme, perché da bambino mi piaceva entrarci per giocare. Fu come vedere la mia vita andare a pezzi. Il secondo ricordo è quando tornammo a casa per recuperare vestiti e viveri e scoprimmo che era completamente in fiamme. Sembrava di essere in un film, tutte le case bruciavano, calore e fiamme ovunque. E poi questo rumore proveniente dai palazzi, il suono del fuoco che divora i materiali. Il terzo ricordo, infine, è legato al supermercato vicino casa, che i serbi fecero esplodere. L’asfalto di fronte era cosparso di dolci, cioccolato e caramelle, io e i miei fratelli avremmo voluto raccoglierli, ma i miei genitori ce lo impedirono. Eravamo in guerra, non c’era tempo per quelle cose. Quella notte fuggimmo verso le montagne, in una meta che non conoscevamo neppure noi. Da allora e per i dieci anni successivi siamo stati profughi.
Ado Hasanović è un regista bosniaco premiato a livello internazionale, che oggi vive a Roma. Ha studiato alla Sarajevo Film Academy, al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e all’Accademia delle arti di Sarajevo. Dirige il Mediterranean film festival passaggi d’autore in Sardegna e promuove il workshop Cortovisioni nelle scuole, dove insegna a realizzare corti come forma di espressione e memoria. Nel 2024 ha fondato a Srebrenica il Silver frame festival come strumento di partecipazione, valorizzazione del territorio ed elaborazione collettiva.
Come ha inciso la guerra sulla vostra vita familiare?
Eravamo una famiglia benestante, avevamo un televisore a colori e il frigo che a quei tempi solo in pochi potevano permettersi. Poi, da un giorno all’altro, non avevamo più nulla. Abbiamo vissuto per anni nella paura: due mesi prima eravamo jugoslavi, due mesi dopo qualcosa di diverso. Per il solo fatto di essere bosniaci di religione musulmana abbiamo vissuto episodi surreali, assurdi, non sapevamo se un vicino di casa ci avrebbe ucciso. Siamo stati fortunati a scappare e a non essere colpiti dalle granate, ma più di 35 persone della mia famiglia non sono riuscite a salvarsi.
Per molti la guerra in Bosnia è un trauma ancora vivo. Quali segni le ha lasciato negli anni successivi?
Anche quando finisce la guerra ti perseguita. Ho avuto incubi e anche dopo il trasferimento a Roma ho continuato a sognare che la guerra ricominciasse. Per anni ho dormito con la luce accesa, non perché avessi paura ma perché durante il conflitto non ho mai visto la luce. Gli incubi sono terminati quando ho finito il film e ho deciso di parlare di questo trauma. Se una persona non fa bene i conti con se stesso è difficile andare avanti.
È corretto dire che con I diari di mio padre ha fatto i conti con se stesso?
All’inizio il film non volevo farlo. Poi, ero da poco arrivato a Roma, in occasione dell’anniversario del genocidio di Srebrenica, mi contattarono per parlare di quei fatti. Mi chiedevo: "Ma cosa devo dire? Io non ho niente da dire". Non capivo perché chiamassero proprio me, non pensavo che la mia parola fosse importante. Ripensandoci, ho compreso quanto la guerra avesse sminuito la mia personalità: ti porta a pensare che non sei nessuno e che tutto quello che dici non vale nulla. Invece è importante che le persone parlino, è un modo per guarire. Realizzare il film è stata una terapia, un’elaborazione del lutto.
È riuscito ad assemblare materiali suoi e altri raccolti da suo padre. Che sensazioni ha provato durante questo lavoro?
Mio padre, insieme a due amici, aveva fondato una televisione, ma nessuno di loro era un professionista né tanto meno un giornalista. Pertanto, da amatori, riprendevano tutto quello che reputavano interessante. Si trovavano insieme ad altri rifugiati, che di fatto stavano aspettando la morte, e così hanno deciso di filmarli. L’aspetto affascinante è che queste persone non hanno mai cercato la morte o la miseria, semmai celebravano la vita. Poi c’erano i diari: credo che mio padre sia stata l’unica persona ad averne scritto uno quotidianamente, dall'inizio fino alla fine della guerra. A Srebrenica ogni giorno era identico: si raccoglievano i pacchi umanitari, se arrivavano, e si aspettava la fine del conflitto. Sono convinto che mio padre scrivesse perché si sentiva in dovere di fare qualcosa, di raccontare quello che stava accadendo. Anch’io avevo fatto delle riprese una volta finita la guerra, e così ho creato un dialogo tra il mio repertorio, quello di mio padre e i suoi scritti. Il film si basa su questo triangolo di contenuti.
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Nel film emerge la relazione con suo padre, un uomo che vuole dimenticare ma che è intrappolato nel passato. Cosa significa oggi ricordare?
Sebbene riprenda il materiale di mio padre su Srebrenica, non è un film di guerra. Parlo della mia famiglia, soprattutto del rapporto con mio padre. All’inizio ho pensato che sarebbe stato facile, ma presto mi sono trovato in una situazione molto difficile, dove lui non aveva alcuna intenzione di parlare e quindi ricordare. Per i bosniaci la memoria è una cosa diversa, quegli eventi li hanno vissuti in prima persona, per loro ricordare non è un atto commemorativo, significa riaprire una ferita dolorosa. E la maggioranza delle persone non è disposta a farlo.
Qual è a suo parere il modo “migliore” per raccontare un conflitto?
All’inizio del racconto della guerra a Gaza vedevo contenuti che mostravano i bambini cantare, persone ballare in casa. Queste cose mi emozionano, più dei contenuti espliciti sulla morte e sulla distruzione, per quanto siano certamente una testimonianza importante. Ecco, le riprese di mio padre mi trasmettono le stesse sensazioni: la guerra non è solo morte, è anche una lotta per restare umani.
Fin da giovane ha desiderato entrare nel mondo del cinema. Quanto hanno influito gli insegnamenti di suo padre?
Sono cresciuto con la macchina da presa. Nel ‘96, finita la guerra, vivevamo nel campo profughi di Tuzla, nella miseria assoluta, senza elettricità o cibo, ma con una macchina da presa che mio padre mi ha insegnato a usare. Facevo zoom in, zoom out e non riprendevo con uno scopo preciso, ma riprendevo tutto. Ero consapevole del potere che questo mezzo può avere. Dopo anni di studio in accademie e scuole di cinema, ho capito che mio padre è stato il mio vero insegnante di cinema.
“La guerra ti porta a pensare che non sei nessuno e che tutto quello che dici non vale nulla”
Cosa può fare l’arte in tempi di guerra?
L’arte mi ha aiutato a elaborare un trauma e oggi, quando sento il bisogno di esprimere qualcosa, non faccio altro che accendere la macchina da presa. Filmare le storie di persone che hanno sofferto mi ha permesso di ricostruire anche la mia vicenda. L'arte ha un potere incredibile, trasmette emozioni a chi la fa e a chi ne fruisce. Oggi serve prendere una posizione netta, occorre dire da che parte stiamo, perché ogni conflitto fa a pezzi intere generazioni e va sempre condannato. Non è semplice guardare con fiducia al futuro, ma le nuove generazioni sono consapevoli, intelligenti e sono convinto che grazie alla loro sensibilità, cambieremo e miglioreremo il mondo.
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Pensa che la Bosnia sia riuscita a elaborare il trauma del conflitto?
Terminata la guerra molte persone hanno ricevuto i materiali per ricostruire la propria casa, ma è mancato il supporto psicologico. Siamo un paese che soffre, ma se racconti che vai in analisi le persone ti danno del matto. Su questo manca un’educazione.
Intanto da una sua idea a Srebrenica è nato un festival di cinema.
La città si porta ancora addosso le cicatrici della guerra e del genocidio e spesso viene descritta come simbolo di dolore. Il Silver frame film festival è un evento aperto a tutti, nato proprio per restituire a questo luogo uno spazio di vita e di cultura. Celebra la diversità del cinema globale, offrendo una piattaforma per l'espressione artistica attraverso il film e creando uno spazio per la riflessione, il dialogo e la connessione. Ogni proiezione, laboratorio e incontro prova a valorizzare la città e i suoi abitanti, mentre i film presentati testimoniano storie umane universali di speranza, resilienza e comunità. Proponiamo prodotti di qualità, come quelli che si vedono a Roma, Parigi o New York, perché crediamo che anche a Srebrenica si debba avere accesso a questo tipo di cultura. Inoltre, coinvolgiamo attivamente la comunità locale, soprattutto i giovani, offrendo loro l'opportunità di apprendere, esprimersi e magari trovare una prospettiva per il futuro.
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L'incontro con l'autore è avvenuto nell'ambito del progetto finanziato dall'Ue "Social Sciences 4 Democracy - A training program for improving research on illiberal systems and finding ways to build more robust democracies" - GA No. 101119678.
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