
Le armi bruciano il pianeta



1 novembre 2025
È il 22 ottobre 2023 e a Gaza si stanno vivendo ancora le prime fasi del sistematico massacro di stampo genocidiario che oggi, dopo due anni, è ormai sotto gli occhi di tutti, nonostante il grande impegno profuso dall’esercito e dalla propaganda di Israele per evitare la diffusione di immagini e racconti che ne diano testimonianza al resto del mondo.
È il 22 ottobre 2023 e a Gaza i corrispondenti delle testate giornalistiche straniere sono già stati banditi, costretti a lavorare oltre i confini della Striscia, mentre in quello sventurato lembo di terra sotto assedio restano soltanto i fotografi e i cronisti palestinesi: sono loro gli occhi e le orecchie del mondo che vuole vedere e sentire. Ma sono anche bersagli mobili da colpire e annientare, voci decisamente scomode che le forze israeliane si impegnano a zittire con furia, inclemenza e una particolare, persistente, attenzione.
È il 22 ottobre 2023 e a Gaza Roshdi Sarraj, brillante trentenne, co-fondatore dell’agenzia di produzione Ain Media, fotoreporter e regista palestinese conosciuto e stimato nel mondo arabo e non solo, dopo aver fatto colazione in famiglia si prepara, in vista di un reportage, a raggiungere un’ambulanza, così da poterla seguire nel suo giro quotidiano lungo le strade della Striscia. Purtroppo, però, Roshdi Sarraj quel reportage non riuscirà mai a girarlo, né riuscirà a vedere l’alba del giorno successivo.
Dopo l’uccisione del marito, l'autrice decide di continuare a lavorare per lui, per sé stessa e per la piccola Dania
Già da tempo impegnato nel denunciare i crimini perpetrati dall’esercito di Benjamin Netanyahu ai danni della popolazione di Gaza (si veda per esempio il documentario prodotto in collaborazione con Amnesty International sulle stragi dell’agosto del 2022, in cui tra gli altri persero la vita 17 bambini), il 22 ottobre 2023 Roshdi Sarraj vede il fuoco dell’Idf abbattersi furioso anche sulla casa della sua famiglia. E quel fuoco raggiunge l’obiettivo che doveva raggiungere: lo uccide, lo annienta, lo silenzia, lasciandolo a terra tra la polvere e le macerie, con il cranio aperto, il cervello esposto all’aria e il resto del corpo ricoperto di sangue, sotto gli occhi dell’inconsapevole figlioletta di undici mesi, la piccola Dania, e della sua giovane moglie, Shrouq Aila, videomaker e giornalista come lui.
Non una storia così inconsueta, questa sin qui raccontata. Ma tanto ordinaria quanto terribile. Roshdi Sarraj è stato infatti il ventisettesimo giornalista ad aver trovato la morte nell’inferno di Gaza dal 7 ottobre 2023, il ventisettesimo nome di una lista che giorno dopo giorno si allungherà fino a comprenderne decine e centinaia: quando scriviamo, sono infatti almeno 252 i reporter e gli operatori dei media uccisi a Gaza da Israele, molti dei quali, come Sarraj, sono stati sorpresi dall’esercito mentre erano tra le mura delle proprie abitazioni, tra gli affetti.
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A partire da quel 22 ottobre, mentre si conclude la storia di Roshdi Sarraj, ne comincia un’altra, che Shrouq Aila prende a narrare dopo aver assistito alla morte del marito, e dopo aver provato a trascinarne il corpo verso l’ospedale più vicino, a piedi, dato che quel giorno, durante gli incessanti bombardamenti israeliani, non c’erano altri mezzi che potessero farlo: "È stato il cammino più lungo della mia vita – ricorda Aila –, sotto il fuoco, tra le macerie. Portavo con me Dania, che piangeva. Non avevo paura, il mio cuore era spento. Volevo solo salvare Roshdi".
Dopo l’uccisione del marito, Shrouq Aila decide infatti di continuare a lavorare per lui, per sé stessa e per la piccola Dania, testimoniando al mondo quanto sta avvenendo nella sua terra martoriata. E decide di farlo nonostante il gravame del lutto e le costanti minacce delle bombe israeliane, e nonostante la scarsità dei mezzi a disposizione, per dar seguito alle intenzioni che già erano del suo Roshdi. Lo stesso che proprio qualche istante prima di essere sorpreso dal fuoco israeliano, rispondendo alle sue preghiere di non andare a lavorare sotto la minaccia delle bombe, le aveva detto: "Se non lo faccio io, chi lo farà? Qualcuno deve raccontare al mondo il collasso del sistema sanitario (di Gaza), i bombardamenti continui, i feriti".
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“Anche se un giorno dovesse arrivare la pace, sarà una pace scritta sulla carta, una pace che non vive nelle nostre case. Una pace che non sta nei nostri cuori. Questa guerra non finisce”
"Due mesi dopo la sua uccisione – racconta Shrouq Aila – sono tornata al lavoro. Non perché stessi bene, ma perché dovevo farlo. Sono tornata non solo come giornalista e filmmaker, ma anche come nuova responsabile di Ain Media […]. Ma la guerra l’aveva cancellata. Avevamo perso Roshdi. Avevamo perso Ibrahim, ucciso il 7 ottobre mentre filmava. Lo stesso giorno avevamo perso i contatti con i nostri colleghi Haitham e Nidal. Le nostre attrezzature erano andate perdute. Il mio computer portatile era stato distrutto nel bombardamento della nostra casa. Non avevamo elettricità. Non avevamo internet. Non avevamo carburante. Ci era rimasta solo una videocamera. Ricominciare era come cercare di far crescere un albero nel deserto. […] La mia storia era diventata parte della storia di Gaza. Qualcuno doveva raccontarla. E ho scelto di farlo".
Ed è una storia di sterminio e di continui sfollamenti da una parte all’altra della Striscia, di impossibile gestione del quotidiano e di famiglie spezzate, una storia di macerie e di incessanti bombardamenti, di reclusione collettiva all’aria aperta e di devastazione, una storia che racconta le vicende, anche minime, di persone totalmente in balìa di decisioni non loro. Ma allo stesso modo è anche una storia che racconta il rifiuto di una giornalista di assoggettarsi a quella violenza, che al contempo testimonia la necessità di un popolo di continuare a raccontarsi.
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È di tutto questo che Shrouq Aila scrive in Hanno ucciso habibi, libro di appena 93 pagine, recentemente pubblicato dalle edizioni veneziane wetlands. Una cronaca secca, sincera, dolente ma essenziale, narrata con parole accessibili e comuni, di cosa vuol dire, per una giovane vedova trentenne trovarsi a essere continuamente bersaglio, prima di tutto in quanto palestinese, poi anche in quanto giornalista.
Una cronaca di cosa vuol dire crescere una figlia durante un genocidio; di cosa vuol dire provare l’"esperienza completamente nuova e terrificante" della fame; di cosa vuol dire dover attendere gli aiuti umanitari in punti di distribuzione che hanno tutta l’aria e le funzioni di una trappola e doversi sfamare con tre datteri in ventiquattro ore, tentando di combattere anche contro il senso di colpa per non essere in grado di garantire abbastanza cibo ai propri figli; di cosa vuol dire vedere tutto diventare macerie: i palazzi, le case degli altri, la propria, e finanche il cimitero a cui sono state affidate le spoglie dei cari, di un marito, dei genitori.
Nelle poche pagine del libro, Shrouq Aila trova spazio anche per narrare brevemente storie non sue. Tra queste, quella di una ginecologa che, dopo aver visto il proprio figlio nascere prematuro e poi morire a causa dei bombardamenti ai generatori di corrente che alimentavano la macchina per l’ossigeno da cui il piccolo dipendeva, riprende a fare tenace il suo lavoro. Oppure la storia di un’insegnante che, dopo aver perso la propria casa sotto una pioggia di ordigni esplosivi, ha continuato con testardaggine a fare scuola ai bambini sfollati, tra le macerie.
Storie che, come quella di Shrouq Aila, riferiscono della necessità di provare a immaginare ancora un futuro, nonostante la guerra e il genocidio che continueranno a riverberare la propria eco, anticipando le note gravi dell’altra guerra che inevitabilmente verrà dopo: "Anche se un giorno dovesse arrivare la pace, sarà una pace scritta sulla carta, una pace che non vive nelle nostre case. Una pace che non sta nei nostri cuori. Questa guerra non finisce. Continua. Persiste. Risuona nei nostri figli. […] Perché quando arriverà il cessate il fuoco, e prima o poi arriverà, non sarà la fine. Sarà l’inizio di un nuovo tipo di guerra. Una guerra per ricostruire dal nulla. Una guerra contro le malattie, contro i traumi, contro i fantasmi che ora vivono nelle nostre cucine e nei cortili delle scuole".
Da lavialibera n° 35,
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