I bambini del villaggio dei Motilones, raccoglitori di coca (Foto Valerio Cataldi)
I bambini del villaggio dei Motilones, raccoglitori di coca (Foto Valerio Cataldi)

Fino all'ultimo indios

La Colombia è il primo paese produttore di coca al mondo e da anni è sempre più diffusa anche la coltivazione di una varietà di marijuana geneticamente modificata. Coltivazione e raccolta danno da vivere a molte famiglie e la violenza predomina

Valerio Cataldi

Valerio Cataldiinviato Tg3

10 settembre 2020

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Dal primo gennaio al 7 luglio di quest’anno l’istituto colombiano di studi per lo sviluppo e la pace Indepaz ha contato 164 tra attivisti ambientali e leader sociali ammazzati in Colombia. Quasi uno al giorno. L’emergenza Covid-19 ha aggravato una situazione già drammatica, perché ha consentito alle squadre della morte di uccidere indisturbate. Tra i 164 morti in poco più di sei mesi, 54 erano indigeni, quasi tutti del Cauca, il dipartimento colombiano in cui vive il nucleo più numeroso degli indigeni Nasa e ci sono grandi coltivazioni di coca e marijuana. Una terra contesa da vari gruppi armati, primi tra tutti i dissidenti delle Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia, ndr) che non hanno voluto firmare i trattati di pace con il governo e hanno di fatto scelto di diventare narcotrafficanti. Secondo i Nasa, ai loro danni si sta consumando un genocidio silenzioso. Un solo omicidio ha fatto un po’ di rumore, costringendo il presidente colombiano Ivan Duque Marquez ad andare nel Cauca alla fine dello scorso anno: quello di Cristina Bautista e dei quattro uomini della sua scorta, avvenuto a colpi di kalashnikov una mattina di ottobre. Cristina, governatrice di Tacueyo, nel dipartimento di Toribio, era una donna coraggiosa. Aveva sfidato i gruppi armati dicendo in un comizio pubblico che dovevano andare via dalla loro terra. "Se stiamo zitti ci uccidono, se parliamo ci uccidono lo stesso, quindi parliamo. Questa è la nostra casa, non siete i benvenuti", aveva esclamato con tono determinato davanti a una folla di persone, tra cui c’erano anche gli uomini dei gruppi armati che controllano le coltivazioni di coca e le raffinerie. Parole pronunciate impugnando la chonta, il bastone rituale dei Nasa: l’unica arma di cui si servono  nella lotta ai narcotrafficanti.

Colombia, pace fatta. Anzi no. Gli accordi tra governo e Farc non hanno fermato le violenze che continuano a colpire i più vulnerabili

Il presepe

La Colombia è il primo paese produttore di coca al mondo e da anni è sempre più diffusa anche la coltivazione di una varietà di marijuana geneticamente modificata che viene definita creepy (inquietante in inglese, ndr) o cripa: ha una strana forma a foglia singola e un tasso di principio attivo che arriva fino al 25 per cento, il triplo di una pianta normale. Un chilo viene venduto centoventimila pesos colombiani, equivalente a poco meno di quaranta dollari statunitensi. Le piantagioni danno lavoro a oltre seimila famiglie di agricoltori, come quello che ci mostra il suo campo sulle montagne intorno Toribio, la principale città dei Nasa. Dice che deve mantenere la famiglia e nessun altra coltivazione gli consentirebbe di guadagnare abbastanza. Poco distante le donne della sua famiglia raccolgono coca. La nonna di 84 anni ha la bocca piena di foglie, che mastica lentamente, e tiene un cesto legato al collo come anche sua figlia e sua nipote: tre generazioni cui la droga dà da vivere. È quasi il tramonto e il contadino urla al figlio di accendere le luci. In questa zona le lampadine non si spengono dalle sei del pomeriggio alle sei del mattino e sono concentrate in piccoli gruppi che disegnano delle ferite luminose. Lo chiamano il presepe. Marcos, uno dei capi della comunità indigena, spiega che servono per incrementare la produzione di marijuana creepy, molto richiesta sul mercato internazionale: "Da quando è arrivata, è aumentata la violenza e il rischio è che i nostri giovani comincino a fumarla. Ha effetti devastanti". 

Quel gioco di luci bianche non è affatto nascosto, lo vedono tutti, anche la polizia e l’esercito, ma nessuno interviene. I trafficanti continuano a coltivare e a trasportare carichi, senza alcun problema. "Noi siamo contro i trafficanti, ma le coltivazioni sono ovunque, riusciamo solo a difenderci", aggiunge Marcos. A contendersi il controllo delle piantagioni sono vari gruppi guerriglieri, dai dissidenti delle Farc all’Esercito di liberazione nazionale (Eln), ma anche bande criminali e gruppi paramilitari di narcotrafficanti come le Aquile nere. Marcos racconta che sono arrivate minacce pure da un gruppo che si firma Sinaloa, come il cartello di Joaquin "El Chapo" Guzman, il signore messicano della droga. Non è chiaro se sia davvero lo stesso gruppo o se si tratti di squadre locali che usano quel nome per intimidire. Di certo, già da diversi anni, i messicani sono arrivati in Colombia per controllare la coltivazione e la produzione di coca.

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L’oro nero

I narcotrafficanti non sono gli unici ad assediare le comunità indigene. Un altro fronte aperto riguarda lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi del Catatumbo, iniziato ad opera di nordamericani e inglesi un secolo fa, col favore dei governi. Quello colombiano si è spinto fino a offrire "protezione" alle compagnie da possibili attacchi dei Motilones Barì, gli indios che si oppongono all’estrazione del petrolio e all’inquinamento del territorio. L’avvocato María Alejandra Garzón Mora, della Rete dei difensori dei diritti umani della Colombia, racconta che "nel 1931 il Congresso della Repubblica di Colombia ha approvato una legge attraverso cui lo stato colombiano autorizzava alcune compagnie statunitensi, la Colpet e la Gulf Oil, a estrarre petrolio nella regione del Catatumbo". Alejandra rappresenta gli indios Motilones e sta raccogliendo documenti che dimostrino quanto è successo. Apre un fascicolo e legge testualmente la parte della norma che garantiva la "sicurezza" delle compagnie statunitensi: "Il governo fornirà alle compagnie appaltanti la protezione della vita per prevenire o respingere le ostilità o gli attacchi da parte di tribù di Motilones o selvaggi che vivono nelle regioni che fanno parte della terra soggetta a questo contratto". Di fatto, dice Alejandra, "il governo colombiano ha autorizzato i militari e la polizia ad assassinare tutti quegli indios che si opponevano all’estrazione del petrolio. È precisamente la legge dello sterminio, la legge del genocidio".

Per raggiungere i Motilones ci inoltriamo nella giungla a bordo di un fuori strada. Viaggiamo per sette ore fino ad arrivare al Rio de Oro, in una zona governata dall’Eln. Ci accompagna un sacerdote, don Rito Alvarez, un italo colombiano nato da queste parti. Saliamo in canoa e navighiamo lungo il fiume che separa la Colombia dal Venezuela, dove vivono le comunità dei Motilon Barì. Tanana, memoria storica della tribù, non conosce la sua età. Tutti dicono che abbia più di cento anni perché ha una cicatrice sul collo per un proiettile esploso dai militari in forza di quella legge del 1931 che li autorizzava a sterminare i Motilones. Tanana li ricorda, ma ricorda anche la violenza delle delle Auc (Autodefensas unidas de Colombia, ndr). Questi gruppi paramilitari, guidati da un italiano di nome Salvatore Mancuso, negli anni Novanta hanno fatto strage nel Catatumbo. Hanno ucciso centinaia di indigeni e i sopravvissuti sono stati costretti a scappare e a rifugiarsi in questa foresta sulle rive del fiume. Le Auc hanno portato la coca, che prima qui non esisteva e hanno cambiato completamente il volto di questa terra.

Bimbi guerriglieri

Le coltivazioni oggi si estendono a perdita d’occhio, proprio dietro il villaggio dei Motilones e ci lavorano tutti i bambini della comunità. Uno di loro è Oliver, ha otto anni. Si fascia le dita con una lunga striscia di stoffa rossa per proteggersi le mani ed essere pronto a raccogliere le foglie di coca. Quanti chili al giorno? "A volte dodici, altre anche quindici", risponde mentre con i denti stringe il nodo della fasciatura. Don Rito dice che i bambini sono schiavi, "dei trafficanti certo, ma in realtà di tutta la filiera: di chi coltiva, raffina, esporta, spaccia e anche di chi consuma. Una dose equivale a una settimana di lavoro di ognuno di questi bambini". Rito Alvarez è un prete di frontiera. In Italia aveva la diocesi a Ventimiglia e accoglieva i migranti, ma le sue origini sono in questa terra. Ha messo su una fondazione che si chiama Oasis de Amor Y Paz, dedicata ai bambini del Catatumbo. Viene qui una volta l’anno per dare a due di loro l’opportunità di studiare e costruirsi un futuro diverso. Quando arriva le famiglie insistono perché se ne porti di più. Tutti sanno che, senza quell’occasione, qui hanno solo due possibilità: lavorare nella coca o arruolarsi nella guerriglia. "Li porterei via tutti, però chi mi aiuta a trovare i soldi? Non abbiamo nessuna istituzione che ci dia una mano", spiega Alvarez. Una pattuglia di guerriglieri arriva proprio mentre finisce l’incontro. Ci chiedono di spegnere le telecamere. Sono ragazzini anche loro. Hanno messo via le armi e invaso il campo disegnato nel prato di fronte la scuola. Oggi sono venuti qui solo per giocare a pallone.

Da lavialibera n°4 luglio/agosto 2020

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