Limbo Castel Volturno

Kodjo, Cheboh e Grace sono tre facce della popolazione di Castel Volturno: una prigione da cui, tra crisi economica e coronavirus, non riescono a emanciparsi. Secondo l'ex sindaco Russo, qui vivrebbero 15mila migranti fantasma

Valerio Muscella

Valerio MuscellaFotoreporter

Michele Bertelli

Michele BertelliGiornalista

10 settembre 2020

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Prima della crisi del 2009, Kodjo era impiegato con un regolare permesso di soggiorno in una fabbrica di Padova che produceva parafanghi. Stava pensando di portare qui la sua famiglia dal Togo, ma poi la ditta l’ha lasciato a casa. Allora si è mosso verso Napoli, sperando di riuscire a guadagnare qualcosa con i lavori in nero. Cheboh, 24 anni dal Gambia, prima del Covid era felice perché un agricoltore locale lo aveva assunto a tempo determinato per 25 euro al giorno. Almeno non doveva più andare a mendicare un lavoro sulle rotonde della via Domiziana all’alba. Grace dice di fare quello che tutte le ragazze fanno qui, cioè vendere il proprio corpo per 15-20 euro in degli appartamenti che funzionano un po’ come ristoranti o bar e, a volte, un po’ come case di tolleranza.

Kodjo, Cheboh e Grace sono tre facce della popolazione di Castel Volturno. Per molti la cittadina costiera tra Napoli e Caserta rappresenta un rifugio e allo stesso tempo una prigione: un limbo da cui non riescono a emanciparsi. I primi migranti sono arrivati negli anni Ottanta, attratti dall'abbondanza di lavoro nella raccolta dei pomodori e dall'offerta di alloggi decrepiti per cifre irrisorie. Oggi l’affitto di un’intera villetta costa intorno ai 300 euro al mese. Secondo l'anagrafe i residenti sono 26.300 e di questi 4.300 sono stranieri. Ma per Dimitri Russo, il più longevo sindaco della città, in carica dal 2014 al 2019, la popolazione reale ammonta almeno al doppio, con 15mila migranti fantasma.

In un simile contesto, il coronavirus ha raso al suolo anche le poche, precarie certezze che chi vive qui si era costruito negli anni. "L’impossibilità di uscire di casa e di andare a lavorare a giornata o a cercare un impiego ha lasciato in molti senza reddito ed è stato devastante dal punto di vista sociale", racconta Sergio Serraino, responsabile dell’ambulatorio di Emergency attivo dal 2015.

La situazione rimane grave anche ora. E su questa povertà diffusa hanno iniziato a muoversi i primi individui senza scrupoli, attraendo i migranti nelle maglie dell’usura con l’offerta di un finto contratto di lavoro per poter accedere alla regolarizzazione prevista dal decreto Rilancio. "Il costo per comprare un contratto va dai 3 ai 5mila euro e stiamo ricevendo segnalazioni di datori di lavoro che lo propongono indicando direttamente anche chi può fare un prestito", denuncia Mimma D’amico, referente del centro sociale Ex Canapificio di Caserta, che da anni gestisce uno sportello legale.

Eppure, anche in quella che l’ex sindaco Russo definì "una discarica sociale", ci si continua a rimboccare le maniche e ad affrontare le difficoltà. Come fa Mama Ghana, che cucina per i suoi connazionali. O le seconde generazioni della squadra di pallacanestro di Tam Tam, che hanno dovuto conquistarsi la possibilità di partecipare ai campionati nazionali anche se nessuno di loro era ancora formalmente cittadino italiano. O le vittime di tratta che hanno trovato nuova vita nella sartoria New Hope a Caserta e oggi cuciono mascherine protettive contro il coronavirus.

Da lavialibera n°5 settembre/ottobre 2020

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