17 settembre 2020
“Da mesi vivo una tripla condizione di isolamento”. Deley da Cunha è un difensore dei diritti umani originario della favela di Acari, dove abitano circa 28mila abitanti, situata a 30 km da Copacabana, la famosa spiaggia di Rio de Janeiro, in Brasile. È isolato per le minacce subite dopo aver denunciato le violenze della polizia nella sua comunità e la corruzuone di apparati dello Stato da parte delle organizzazioni criminali. Si trova ora sotto protezione, grazie al supporto di un’organizzazione internazionale, ma è costretto a vivere a 50 km dalla sua gente. Poi è isolato per colpa di una malattia che lo rende ipovedente e per il Covid-19. Il Brasile è il secondo Paese al mondo per il numero di morti provocate da questa malattia, più di 132mila casi al 15 settembre. Il presidente Jair Bolsonaro, come Donald Trump negli Usa, ha negato fino all’ultimo l’esistenza della pandemia, scoraggiando il rispetto delle misure che avrebbero tutelato la popolazione, soprattutto quella più vulnerabile che nello Stato latinoamericano viene chiamata “periferica”, delle periferie.
Sono moltissimi i problemi degli abitanti delle baraccopoli brasiliane. “L’accesso alla salute e all’educazione sono ormai prerogativa solo di precisi settori della popolazione, la classe medio-alta, per lo più bianca – spiega Deley da Cunha –. Nelle comunità più povere c’erano già grandi problemi sanitari legati alla diffusione di malattie, come quelle cardiovascolari e respiratorie, disagi che si sono aggravati”. Anche i più giovani hanno subito molti problemi: “Sono stati completamente esclusi dai percorsi educativi negli ultimi mesi. La didattica online è impossibile senza accesso a Internet e con in media un unico cellulare per tutto il nucleo familiare, di solito composto da almeno cinque persone. Senza dimenticare che la scuola garantiva a questi ragazzi l’unico pasto equilibrato della giornata”.
Il presidente brasiliano si è mosso in maniera coerente rispetto alle misure prese fin dall’inizio del suo mandato. A suo modo ha proseguito una politica di repressione contro chi abita nelle aree più emarginate del paese. Secondo i dati del governo federale, 52,5 milioni di brasiliani vivono sotto la soglia della povertà e 13,5 milioni si trovano in situazione di miseria estrema. Almeno 30 milioni di persone vivono in condizioni abitative precarie, in baracche, ammassati in ghetti sovraffollati, senza acqua e altri servizi di base, senza possibilità di lavarsi e proteggersi dal virus.
Sono quasi 38 milioni i lavoratori “informali”, stima l’Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística (Ibge), e negli ultimi tre mesi sono stati persi 8,9 milioni di posti di lavoro. Buona parte degli abitanti delle favelas sopravvivono a giornata facendo lavoretti privi di qualunque tutela legale: lustrascarpe, ambulanti, manovali. A poco è servito il sussidio di emergenza varato dal governo, 120 dollari al mese, a cui può accedere solo chi ha un conto bancario e un codice identificativo fiscale, quindi una minoranza di “privilegiati”.
In America Latina, durante la pandemia restare a casa è un privilegio per pochi
Le organizzazioni sociali e i collettivi hanno cercato di aiutare queste larghe fasce della popolazione. I volontari dell’Instituição Beneficente Conceição Macedo, fondata da padre Alfredo Dorea, da anni si dedica a Salvador de Bahia alle persone sieropositive e ai più fragili. Non hanno mai smesso di portare ogni sera il cibo alle persone che vivono per strada, a garantire sostegno domiciliare ai bimbi già coinvolti nei loro progetti, con pacchi alimentari e attività ricreative, e anche a sostenere le “professioniste del sesso”, le più emarginate tra gli emarginati. Tuttavia nel corso dell’emergenza, come del resto anche prima, in assenza delle istituzioni le mafie hanno preso il sopravvento. A Cidade de Deus, la favela carioca tra le più grandi con i suoi 40mila abitanti, è stato imposto il primo coprifuoco notturno dopo i primi casi di Covid-19 del 22 marzo. A imporre la chiusura serale di bar, negozietti e bancarelle, la sospensione delle partite di calcio e delle resenhas, i tradizionali ritrovi improvvisati tra vicini all’esterno delle casupole, non è stato né il governo, né le autorità locali, ma il tráfico, la criminalità.
Secondo il professore Dario de Sousa e Silva Filho dell’Università Statale di Rio de Janeiro, “da una parte vi sono le bande di narcotrafficanti ‘semplici’, dall’altra le milicias, i gruppi delinquenziali formati da poliziotti corrotti, in servizio o ex, criminali e politici conniventi. Narcos delle differenti fazioni e milicias si sono spartiti, spesso dopo cruenti conflitti, le baraccopoli brasiliane dove, oltre a gestire i loro traffici, esercitano anche un’amministrazione di fatto, dato il disinteresse delle Stato”. Dopo Cidade de Deus, i boss delle baraccopoli di Rio – da Maré a Rocinha – e di San Paolo hanno dichiarato quarantene e chiusure straordinarie di eventi e attività. Ma non è avvenuto solo questo, infatti in altri contesti le milicias hanno imposto invece alle piccole botteghe – in particolare a Gardênia Azul, Rio das Pedras, Muzema, Itanhangá e Itaboraí – di restare aperte e ai lavoratori di svolgere normalmente la loro attività, per una ragione fra tutte: non perdere gli introiti garantiti dall’attività di strozzinaggio.
Anche uno dei politici più noti per la lotta alla criminalità, il governatore dello Stato di Rio de Janeiro Wilson Witzel, ha cercato di garantirsi una fetta di profitto: ad agosto è stato accusato di corruzione insieme ad altri otto indagati, per appropriamento indebito di fondi destinati all’emergenza sanitaria. È diventato il sesto governatore di Rio a finire nel mirino della giustizia in meno di quattro anni.
Da gennaio 2020, secondo i dati forniti dall’Osservatorio per la Sicurezza Pubblica di Rio, si riscontra che siano state 1.810 le persone uccise da agenti di polizia
A queste condizioni si aggiunge la violenza diffusa: le sparatorie nelle favelas sono all’ordine del giorno, tra spacciatori e forze dell’ordine così come tra bande criminali. Secondo l’Onu, il Brasile è il paese dove più si muore a causa delle “balas perdidas”, i proiettili vaganti, che a inizio anno hanno ucciso due bambine di 8 e 11 anni. Entrambe le bimbe erano afro-discendenti come la stragrande maggioranza di chi abita in queste zone. Da gennaio 2020, secondo i dati forniti dall’Osservatorio per la Sicurezza Pubblica di Rio, si riscontra che siano state 1.810 le persone uccise da agenti di polizia. Tra i fatti cruenti che hanno segnato questo periodo, uno riguarda João Pedro Massa Pinto, 14 anni, ucciso da oltre settanta proiettili esplosi da agenti della Polizia militare e civile contro la casupola in cui viveva – nella favela del Complexo do Salgueiro a São Gonçalo. Due giorni dopo è toccato a João Vitor Gomes da Rocha, 18 anni, ucciso nella favela di Cidade de Deus. A seguire Rodrigo Cerqueira, 19 anni, nel Morro da Providência. Il 25 maggio, Bianca Regina Oliveira, 22 anni, è stata colpita in faccia da una pallottola a Cidade de Deus. “Una politica di sterminio”, sostiene Deley.
Di fronte a questa violenza, nonostante isolamento e coprifuoco, è stata forte l’esigenza di far sentire la propria voce. Nella favela di Acari, Buba Aguiar, giovane attivista appartenente allo stesso collettivo di Deley, anche lei sotto protezione dopo le minacce subite, ha organizzato due manifestazioni, il 31 maggio ed il 7 giugno, al grido internazionale “Black Lives Matter” (Las Vidas Negras Importan) a cui si è aggiunto un altro slogan,As vidas nas favelas importam, cioè le vite nella favela importano. “Il sistema socio-economico brasiliano si basa sostanzialmente su una cultura schiavista e coloniale – spiega Buba –. In tale contesto, la popolazione nera, afro-discendente e ‘periferica’ è considerata un nemico pubblico da eliminare ad ogni costo. Così le azioni della polizia diventano azioni punitive con una loro legittimità e con garanzia di impunità”.
Da anni le madri dei tanti giovani assassinati si sono unite per chiedere verità e giustizia. “Siamo le voci dei nostri figli. Torturati e giustiziati – dicono in un comunicato –. Non hanno ucciso solo i corpi. I nostri figli avevano anche un nome, dei volti, delle storie. Cerchiamo giustizia per continuare a sopravvivere”. All’interno di un processo di impunità sistemica e di non riconoscimento vivono quel senso di profonda impotenza e frustrazione che si traduce nella revictimización, fenomeno molto noto in America Latina. Loro e i loro figli assassinati finiscono sul banco degli imputati, prima ancora dei presunti assassini.
La campagna d’odio contro la popolazione delle aree più vulnerabili del paese, non solo nelle città ma anche nelle aree rurali e indigene, ha raggiunto livelli spropositati. A luglio il teologo della Liberazione e consulente della Fao, Frei Betto, ha lanciato una denuncia internazionale “contro un governo necrofilo” che sta uccidendo i suoi abitanti, che utilizza la pandemia, “per far morire i poveri e risparmiare i soldi del programma di assistenza Bolsa Familia e di altri programmi sociali”.
“Nel 2016 l’impeachment contro l’allora presidente Dilma Rousseff è stato sostenuto da parlamentari legati alle lobby delle armi, denominati della bala de revolver, alle lobby del bestiame, do boi, e a gruppi religiosi estremisti, da Bíblia – spiega il professore Dario de Sousa e Silva Filho –. Tali apparati, noti per i loro vincoli mafiosi, promuovono da sempre l’esproprio delle terre agli indigeni e la distruzione della foresta amazzonica per interessi economici. Attraverso campagne mediatiche e giudiziarie, questi gruppi oligarchici sono riusciti a imporsi con l’elezione di Bolsonaro”. Secondo Sousa la strategia utilizzata è stata la lawfare, ossia l’utilizzo di strumenti di tipo giuridico per conseguire obiettivi strategici. Ciò ha permesso a settori politici corrotti e mafiosi di indebolire gli avversari e imporsi. Le garanzie costituzionali sono state sospese, legalizzando atti illegali contro chi lotta per la giustizia sociale e per i diritti nel paese, legittimando un processo di criminalizzazione dei movimenti e della società civile.
A tale riguardo, un momento tragico per il Paese è stato l’assassinio nel 2018 di Marielle Franco. Come lei stessa si definiva “nera, lesbica, attivista politica, madre a 19 anni e femminista” rappresentava tutte le categorie più odiate dalla classe dominante. Marielle, la “cria da Marè”, la creatura della Marè, la favela in cui ha vissuto per tutta la vita, ha pagato con la vita il suo impegno a fianco degli ultimi. A due anni e mezzo dalla sua morte ancora non si sa chi siano stati i mandanti. L'arresto a giugno di Fabrício Queiroz, ex autista di Flavio Bolsonaro, figlio maggiore del presidente e deputato al parlamento dello Stato di Rio come Marielle Franco, potrebbe svelare almeno una parte degli intrecci esistenti fra politica e criminalità.
A fronte di uno scenario non certo rassicurante si intravedono almeno due prospettive su cui rappresentanti della società civile come Padre Alfredo a Salvador de Bahia e Deley del collettivo di Acari, a Rio de Janeiro, ripongono speranza. La prima riguarda le elezioni comunali, posticipate da ottobre a novembre, le prime dall’insediamento di Bolsonaro, che potrebbero auspicabilmente creare un’alternativa politica, a livello locale e municipale rispetto alla nefasta tendenza del governo federale. La seconda, probabilmente, è la nascita di una nuova generazione di attiviste e attivisti proprio nelle comunità “faveladas” e nei quartieri emarginati.
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