5 maggio 2020
L’uomo dipende dalle foreste, ma la popolazione umana è in continua crescita e le risorse sono sempre più scarse: come gestire le comunità vegetali in questo contesto? Per secoli gli uomini hanno gestito le foreste con un approccio empirico, ossia per tentativi ed errori, valutando i risultati a posteriori. Questa strada non è più percorribile: occorre applicare il metodo scientifico anche per la gestione delle foreste. E il primo passo è conoscere come funziona la foresta. Nella foresta ci sono tantissime piante di varie dimensioni. Man mano che queste crescono, alcune devono morire perché la competizione per le risorse aumenta: è l’auto-diradamento della foresta.
Più le piante saranno grandi, meno ce ne saranno, ma le piante grandi consumeranno le stesse risorse di quelle piccole. Una democrazia assoluta dove non esistono classi privilegiate
Ci chiediamo: esiste una legge universale che guida questo processo indipendentemente dal tipo di foresta? La risposta è sì ed è una legge bellissima che gli uomini dovrebbero imparare a emulare. In parole semplici, ogni classe dimensionale (misurata come volume della chioma dell’albero) consuma la stessa quantità di risorse di tutte le altre. Ciò che cambia è il numero di piante presenti nell’area: più le piante saranno grandi, meno ce ne saranno, ma le piante grandi consumeranno le stesse risorse di quelle piccole. Una democrazia assoluta dove non esistono classi privilegiate: è il principio dell’equivalenza energetica. Un principio che però vale per tutte le foreste vergini, non per quelle alterate dall’azione umana.
Se ne deduce che la foresta naturale sia la miglior foresta possibile e, soprattutto, che non abbia per nulla bisogno dell’uomo, dato che si organizza in modo perfetto. È piuttosto l’uomo che, come detto, non può fare a meno della foresta. Il vero obiettivo è allora trovare un compromesso per gestire la foresta cercando di rendere minimo il disturbo e massimi i benefici. La conoscenza di come funziona la foresta ci aiuta anche a sfatare qualche mito sul loro ruolo.
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Bisognerebbe quindi rivedere il concetto che le foreste pluvialisiano effettivamente i polmoni verdi del pianeta
Tutti sappiamo che attraverso la fotosintesi le foreste assorbono l’anidride carbonica (CO2) presente in atmosfera. Ciò che però spesso ci sfugge è che le foreste sono composte oltre che da alberi anche da tanti altri organismi (come animali e microorganismi nel suolo) che respirano e, quindi, emettono a loro volta CO2. Non solo: le foreste cambiano nel tempo a seguito di eventi come incendi o colpi di vento e durante questo mutamento la quantità di CO2 assorbita varia moltissimo. Fino a quando la foresta nel suo complesso cresce, l’assorbimento totale di anidride carbonica attraverso la fotosintesi è superiore alla respirazione di tutti gli organismi dell’ecosistema, e quindi all’emissione totale di CO2.
Arriva però un momento in cui la foresta riesce a utilizzare quasi tutte le risorse disponibili e quindi a raggiungere una condizione di massima biomassa. In questa situazione la foresta, intesa come sistema, smette di crescere e fotosintesi e respirazione totale si eguagliano. Le foreste che hanno raggiunto questa condizione non assorbono un solo grammo di CO2 in più rispetto a quella che emettono. Bisognerebbe quindi rivedere il concetto che le foreste pluviali (che hanno massa relativamente costante nel tempo) siano effettivamente i polmoni verdi del pianeta.
Questo non significa che le foreste vergini siano inutili, perché contengono un’enorme quantità di carbonio che in caso di abbattimento o incendio verrebbe liberata in atmosfera sotto forma di CO2. La loro tutela assoluta è prioritaria. Inoltre, le foreste sono fondamentali nella stabilizzazione climatica perché raffreddano il pianeta attraverso il processo di traspirazione nonché nella regolazione del ciclo dell’acqua. Ma circa l’effettivo assorbimento di CO2 i numeri sono molto meno rassicuranti di quel che si vorrebbe far credere.
La Comunità Laudato si’, ad esempio, ha proposto di piantare 60 milioni di alberi in Italia. Considerato che in tutta la penisola se ne contano circa 12 miliardi, si tratterebbe di un aumento di meno dello 0,5 per cento. A conti fatti, questi 60 milioni di alberi assorbiranno appena lo 0,005 per cento delle emissioni globali annuali di CO2 e circa lo 0,15 per cento di quelle degli italiani (e solo finché potranno crescere). Tutti siamo favorevoli a piantare alberi, e poco è meglio di niente, ma non dobbiamo costruirci false illusioni sulla riduzione del riscaldamento globale tralasciando, invece, di mettere in atto iniziative più efficaci.
Innanzitutto, essere onesti ed evitare di far fare tutto alle foreste, che già ci proteggono dalle frane e dalle valanghe, ci forniscono prodotti come il legno, tutelano la biodiversità, regolano il ciclo dell’acqua e il clima. Non possiamo chiedere loro di risolvere anche il problema delle emissioni di CO2. Le foreste, poi, sono ecosistemi estremamente delicati: come si è detto, basta una tempesta di vento o un incendio per vanificare decenni di assorbimento in pochi giorni. Questo aspetto di cosiddetta non permanenza delle foreste è estremamente critico nella valutazione complessiva della loro efficacia nella mitigazione dei cambiamenti climatici. Altre fonti di energia rinnovabile (come quella eolica) non soffrono di questa limitazione.
Occorre infine tenere a mente la strategia Marc, il cui primo passo è monitorare (monitor) per sapere quanto consumiamo. Poi ci sono tre opzioni di intervento: la prima è evitare (avoid) le emissioni, la seconda ridurle (reduce) ottimizzando tutti i processi e la terza compensarle (compensate). La compensazione, ossia piantare alberi, è solo l’ultima opzione dopo aver attuato al massimo possibile le prime due. Non saranno quindi le foreste a risolvere il problema delle emissioni di CO2: l’unica vera soluzione è un cambiamento dei nostri stili di vita. Dobbiamo fare in modo che la comunità umana nel suo complesso riesca a “respirare” di meno, ovviamente con impegni differenziati in relazione al contributo relativo di ognuno di noi.
Da lavialibera n°2 marzo-aprile 2020
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