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  • Credits: Gruppo Facebook Salviamo le Apuane
  • La devastazione delle Alpi Apuane - Foto n. 3/5
  • La manifestazione del 24 ottobre
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La devastazione delle Alpi Apuane

Per i movimenti NoCav l'estrazione del marmo di Carrara è insostenibile per l'ambiente e per l'uomo: negli ultimi 13 anni si sono verificati 12 incidenti mortali, l'ultimo lo scorso 28 ottobre

Tommaso Meo

Tommaso MeoGiornalista freelance

28 dicembre 2020

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L’estrazione del marmo di Carrara dalla catena delle Alpi Apuane in Toscana procede da qualche decennio a ritmi folli, mettendo in pericolo i ricchi ecosistemi delle stesse montagne e causando danni a tutto il territorio. Una deturpazione che, sostengono gli ambientalisti locali, non è più giustificata dalle ricadute economiche sulla collettività, con la ricchezza che resta nelle mani di pochi. Tanto più che il famoso marmo della zona è una minima parte di quello estratto a favore di detriti per il business del carbonato di calcio.

Il marmo di Carrara, che i romani chiamavano oro bianco, viene estratto in questa zona da duemila anni. Michelangelo in persona si recava qui per scegliere i migliori blocchi di statuario per le proprie opere. Dai primi del Novecento il marmo ha iniziato a essere estratto anche dalle Alpi Apuane, ma dagli anni Sessanta, con lo sviluppo tecnologico e la riduzione dei tempi di estrazione, la situazione si è fatta insostenibile. Oggi le macchine di ultima generazione consentono di ricavare un grosso blocco di marmo in dieci ore, mentre 40 anni fa sarebbero serviti 20 giorni. Si stima che negli ultimi 30 anni si sia estratto più materiale che nei duemila precedenti. “La roccia ora si scava col joystick”, commenta Alberto Grossi, figlio di un cavatore e membro del Gruppo d'intervento giuridico (Grig), impegnato nel monitoraggio degli abusi nell’escavazione del marmo.

Il problema dei detriti

Tra Carrara e le Apuane ci sono 165 cave attive e 510 dismesse, secondo un censimento del centro Geotecnologie dell’università di Siena. 80 sono nel Parco delle Alpi Apuane, un complesso montuoso ricchissimo di acqua e biodiversità, incastonato tra i bacini del Magra e del Serchio, che si estende per sessanta chilometri, non lontano dalla costa tirrenica.

Credits: Athamanta
Credits: Athamanta

Se per secoli il pregiato marmo di Carrara era per buona parte destinato alla lavorazione di artisti e artigiani, ora la maggior parte della materia estratta è composta da detriti (quattro milioni su circa cinque tonnellate di materiale estratto annualmente) che servono all’industria del carbonato di calcio e che finiscono nei dentifrici e nei cosmetici. Una strada imboccata con decisione negli anni Novanta quando la multinazionale svizzera del carbonato di calcio Omya si è stabilita a Carrara.

Nel 2015 il Piano regionale cave (Prc) della Toscana ha imposto un rapporto massimo tra la quantità di blocchi estratti e i detriti di lavorazione di 25 a 75. Gli ambientalisti hanno tentato di portare la percentuale di blocchi al 30% ma l’idea non è passata. Anzi, già in alcune cave i detriti sono l’80% e, grazie a un sistema di premialità, si può arrivare anche al 90-95%. “Nella cava Michelangelo, la più grande di quelle Apuane, da 15 anni si estraggono più del 91% di detriti”, sostengono i membri di Athamanta.

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I danni su ambiente e salute

“La distruzione non è arte” hanno scritto i membri di Athamanta in un manifesto esposto durante l'ultima manifestazione del 24 ottobre in piazza Alberica a Carrara per chiedere la chiusura delle cave e di fermare la devastazione delle Apuane. Il collettivo è nato un anno fa dall’unione dei Fridays for future di Carrara con gli attivisti della Casa rossa occupata. Il nome deriva da un fiore endemico e a rischio scomparsa dai pendii delle montagne erosi dalle cave. 

Queste montagne sono tra le più ricche al mondo, ma l’estrazione senza freni di detriti – accatastati nei ravaneti in quota – le sta compromettendo, e con loro le diverse specie animali e vegetali che le popolano, oltre alle risorse naturali. “Gli abusi sono ormai una prassi e tanti scavano anche dove non potrebbero. Non basta il Parco, non bastano le normative”, spiega Alberto Grossi.

“Gli abusi sono ormai una prassi e tanti scavano anche dove non potrebbero. Non basta il Parco, non bastano le normative”Alberto Grossi - figlio di un cavatore e membro del Grig

“Gli scarti dell’estrazione – la famosa marmettola – inquinano le falde e i corsi d’acqua” continua Grossi. L’ultimo impianto di depurazione costa alla collettività 350mila euro l’anno, con un prezzo iniziale di 200mila. La marmettola inoltre intasa, cementificandolo, il letto di fiumi e torrenti, contribuendo al rischio esondazioni. Le alluvioni sono state otto in 20 anni a Carrara, tra cui quella rovinosa del 2014. Come se non bastasse, secondo Grossi la polvere di marmo soffoca il territorio, contribuendo a un'alta percentuale di malattie polmonari.

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Il ricatto del lavoro

“Negli ultimi 13 anni si sono verificati 12 incidenti mortali, l’ultimo il 28 ottobre, e 1.206 persone sono rimaste ferite”

“I lavoratori rientrano tra coloro che subiscono gli effetti negativi di questo modello di sfruttamento – dichiara Athamanta –. Negli ultimi 13 anni si sono verificati 12 incidenti mortali, l’ultimo il 28 ottobre, e 1.206 persone sono rimaste ferite”. Il ricatto occupazionale – su cui cavatori e istituzioni hanno fatto leva finora di fronte alla domanda di chiudere le cave sulle Apuane e ridimensionare l’attività estrattiva – non sembra reggere nemmeno alla prova dei numeri. “Qualche decennio fa a Carrara si impiegavano 10mila persone alle cave e al piano per lavorare il marmo, ma con la tecnologia c’è stata una rottura con quell’economia ed è inziata ad aumentare la disoccupazione – sostiene Eros Tetti, fondatore del gruppo Facebook Salviamo le Apuane e in politica con i Verdi –. Con il business del carbonato di calcio si sono tenute aperte cave che altrimenti sarebbero state chiuse. Ormai una può essere retta da due operai”.

Carrara, 15 aprile 2016, intervento dei vigili del fuoco dopo un crollo mortale in cui sono rimasti coinvolti due cavatori. Credits: I. Giannini/LaPresse
Carrara, 15 aprile 2016, intervento dei vigili del fuoco dopo un crollo mortale in cui sono rimasti coinvolti due cavatori. Credits: I. Giannini/LaPresse

Nel 1994 erano ancora 2.772 le persone impiegate nel settore lapideo nella provincia, nel 2018 i dipendenti sono scesi a 1.786 secondo la Camera di commercio di Massa-Carrara. Ormai della ricchezza sul territorio rimangono le briciole – la lavorazione dei blocchi è spesso delocalizzata all’estero – e ne beneficiano poche famiglie. “La Franchi Umberto Marmi, che ha debuttato in Borsa quest'anno, è un gruppo con un utile superiore ai 16 milioni di euro e 40 dipendenti”, racconta il collettivo Athamanta.

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Uno sviluppo alternativo per il territorio

Tutti quelli che si occupano della questione concordano sul fatto che Carrara abbia puntato da tempo sulla monocoltura del marmo, non guardando ad altri settori, come il turismo. “Regione e industriali non vogliono neanche parlarne – afferma Tetti –. C’è un sistema di pressioni e potere molto radicato”. Più votato a un dialogo politico, il Coordinamento apuano – di cui fanno parte comitati locali, Salviamo le Apuane, Legambiente, Cai e Wwf – ha prodotto già nel 2016 un Manifesto per le Alpi Apuane e redatto un articolato piano di sviluppo, il Pipsea (Piano programma per lo sviluppo alternativo per le Apuane). “Abbiamo diviso il territorio in tre macro aree – spiega Tetti –. Una da salvaguardare integralmente, non ancora toccata dalle cave, una già parzialmente compromessa, da riconvertire con attività agricole e artigianali, e la zona di Massa e Carrara in cui l’attività di cava continuerebbe per la trasformazione in loco”. Salviamo le Apuane sta poi cercando di far diventare la questione internazionale, con un convegno online previsto a marzo e un'interrogazione presentata tramite i Verdi al Parlamento europeo.

Secondo Grossi la questione è così radicata da essere “una lotta contro i mulini a vento: ovunque ti giri c’è qualcosa che non va. Non si tratta solo di leggere le carte e fare degli interventi, bisogna andare a verificare sul terreno e siamo pochi”. Intanto, però, dal 2016, ovvero da quando sulle montagne toscane ci sono le sentinelle del Grig, sono state almeno 20 le sospensioni delle attività di cava.

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