31 luglio 2020
C’è un grande paradosso quando si parla di ambientalismo, che Sunita Narain riassume così: “A volte si è troppo poveri per essere ambientalisti”. Narain è la direttrice del Centro per la scienza e l’ambiente, organizzazione no-profit di base in India che promuove lo sviluppo sostenibile, e “una voce che richiede di essere ascoltata con urgenza in quest’era di cambiamento climatico”, dice lo scrittore Amitav Ghosh. Ha iniziato a occuparsi di ambiente negli anni Ottanta, “quando il problema era ignorato da tutti”, e le sue idee hanno modellato il dibattito odierno. Nel 2016 la rivista Time l’ha inserita tra le 100 persone più influenti del mondo e Leonardo Di Caprio l’ha voluta al proprio fianco nel documentario Punto di non ritorno (Before the flood), in cui l’attore discute del riscaldamento globale con politici e attivisti. Le sue battaglie si sono concentrate sugli ultimi della Terra, con l’obiettivo di contrastare una narrazione che lei definisce “un esempio di colonialismo ambientale”.
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“Le persone più povere – sostiene Narain – sono nella posizione peggiore per affrontare le emissioni che contribuiscono al cambiamento climatico, in quanto sono le più vulnerabili ai suoi effetti”. In questo scenario, “il solo modo di combattere il riscaldamento globale è raggiungere un accordo di cooperazione: gli Stati ricchi devono impegnarsi a ridurre le loro emissioni, mentre quelli poveri devono avere l’opportunità di crescere, seguendo un nuovo modello di sviluppo. Perché lo facciano è necessario mettere a loro disposizione sia i soldi sia la tecnologia. Una consapevolezza che era stata raggiunta a Rio de Janeiro nel 1992, durante la prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull’ambiente. Ma da trent’anni il trattato siglato allora viene distrutto: finanziamenti e strumenti non sono mai arrivati e i Paesi sviluppati non hanno ridotto le loro emissioni”.
"Da trent’anni il trattato siglato a Rio nel 1992 viene distrutto: finanziamenti e strumenti non sono mai arrivati e i Paesi sviluppati non hanno ridotto le loro emissioni”
Lo stesso discorso vale su scala più piccola. Narain prende come esempio il suo Paese natale, dove è visibile in modo chiaro che “è impensabile avere uno sviluppo sostenibile senza una crescita inclusiva ed equa”. Nelle città, già invivibili per smog e traffico, al momento solo una piccola percentuale della popolazione usa auto o scooter per muoversi, mentre i più si spostano sfruttando i mezzi pubblici. “Se iniziassero anche loro ad acquistare le macchine, sarebbe il caos. Impossibile pensare ad altro che non sia una mobilità sostenibile per tutti”. Un discorso opposto, ma speculare, riguarda i villaggi in cui ci sono ancora molte persone che, non potendosi permettere altro, utilizzano biomasse come fonte d’energia per cucinare. “Il combustibile emesso da quei forni inquina l’aria di tutti, per cui senza un sistema che fornisca energia pulita ai più poveri, è impossibile far fronte al problema dell’inquinamento atmosferico. L’ambientalismo non deve essere un lusso, ma una questione di sopravvivenza”. D’altra parte, c’è da considerare che i poveri contribuiscono in misura minore all’inquinamento e, “a differenza di quanto si crede, ci tengono al loro ambiente”. Basti pensare al movimento di Chipko, una mobilitazione femminile per la protezione della foresta himalayana iniziata negli anni Settanta in Uttarakhand, nel nord dell’India.
Eppure sono proprio gli ultimi a pagare il prezzo più alto. Anche per via del modo in cui il movimento ambientalista è cresciuto negli ultimi anni, accusa Narain: “Il motto fino ad ora è stato ‘non nel mio giardino’ e se bisognava costruire un inceneritore, l’importante era che fosse fatto altrove. Come risultato, sono state create le condizioni per spostare il problema dai ricchi ai poveri. Inoltre, negli ultimi anni c’è la tendenza a realizzare mega-progetti ambientali nei luoghi in cui vivono comunità rurali, senza alcun riguardo dei diritti che le popolazioni indigene hanno sul territorio e sulle risorse idriche”.
Il motto fino ad ora è stato ‘non nel mio giardino’ e se bisognava costruire un inceneritore, l’importante era che fosse fatto altrove. Come risultato, sono state create le condizioni per spostare il problema dai ricchi ai poveri
È il caso del più grande impianto eolico realizzato in Africa, sulle rive del lago Turkana, nel nord del Kenya: una zona in cui è storica la presenza di pastori nomadi, che hanno fatto causa al governo accusandolo di aver concesso ettari di terra alla compagnia privata responsabile del progetto illegalmente, non tenendo conto dei loro diritti sul territorio né tantomeno assicurandogli un beneficio dalla produzione di energia elettrica: un processo ancora in corso. Sugli ultimi gravano anche le principali conseguenze del riscaldamento globale. Secondo le Nazioni unite, i paesi in via di sviluppo soffrono il 99 per cento dei danni imputabili al clima. Alluvioni e tifoni sempre più intensi e frequenti mettono a rischio soprattutto persone che si trovano nelle zone rurali di India, Bangladesh, Cina, Vietnam e Pakistan. Un altro problema è l’invasione di locuste che in questo momento sta flagellando tanto l’Africa quanto il sud-est asiatico, mettendo in difficoltà gli agricoltori.
“Queste persone non capiscono cosa si intenda con l’espressione riscaldamento globale, ma ne subiscono gli effetti devastanti nella loro vita quotidiana. Effetti che minano il godimento di qualsiasi diritto umano”. La tattica del “non nel mio giardino” adottata dagli Stati sviluppati non è più praticabile, ora che le comunità locali stanno iniziando a rivendicare la gestione delle loro risorse, pretendendo che equità e giustizia siano alla base del futuro movimento green. “L’ambientalismo emergente dei Paesi in via di sviluppo ci sta ponendo davanti a questioni fondamentali: adesso che non possiamo più spostare l’inceneritore vicino casa di qualcun altro dobbiamo imparare a minimizzare i nostri rifiuti, così come a usarli di nuovo e a riciclarli”.
“Una profonda trasformazione della nostra economia”, è questa la risposta secondo Sunita. Una trasformazione che, per l’ambientalista, non può coincidere con un mantenimento di un eguale stile di vita, anche se “il cambiamento non dovrà essere così radicale e distruttivo come quello imposto dal Covid”. Il nuovo modello di sviluppo dovrebbe essere associato a una politica diversa che preveda, al tempo stesso, un rafforzamento sia della democrazia locale sia di quella globale. “È necessario dare alle comunità locali il potere di disporre delle loro risorse naturali – dice Narain –, sia perché è un loro diritto sia perché solo così possono capire quanto sia importante una gestione sostenibile dell’acqua, o dei terreni”. A questo proposito l’ambientalista punta a una democrazia partecipativa, cioè a un coinvolgimento diretto dei cittadini nel processo decisionale attraverso piccoli forum. In parallelo va ripensata la leadership mondiale sul cambiamento climatico che, fino ad ora, “è stata fallimentare”.
“La vera tragedia cui dobbiamo far fronte oggi è che le istituzioni globali sono diventate una mera espressione degli interessi nazionali"
“La vera tragedia cui dobbiamo far fronte oggi è che le istituzioni globali sono diventate una mera espressione degli interessi nazionali. Lo dimostra la gestione della pandemia da coronavirus da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità, così come il fatto che l’invasione delle locuste non sia ancora stata dichiarata una piaga internazionale”. Non va meglio sul versante ambientale, visto che la conferenza delle Nazioni unite sul clima è stata posticipata di un anno. “Quanto può essere terribile?!, esclama l’attivista. “Certo, c’è un’emergenza sanitaria in corso e abbiamo di fronte a noi una crisi umanitaria ed economica. Ma l’ambiente è altrettanto importante: agire sul clima è imperativo. Non credo si capisca la gravità della situazione e di quel che ci aspetta. Gli incendi che hanno devastato l’Australia tra il 2019 e il 2020 e il caldo record registrato quest’estate nella riviera siberiana sono solo l’inizio”.
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